Premesso che criticare le decisioni prese da altri è spesso molto più agevole che optare per determinate soluzioni, soprattutto in situazioni che (sia pur erroneamente, come vedremo) erano ritenute caratterizzate dall’assenza di precedenti, e che anche i Governi di numerose altre Nazioni sono stati censurati per irresolutezze, ritardi e mancati coordinamenti nella predisposizione delle misure volte a fronteggiare la pandemia originata dalla diffusione del COVID-19, occorre rilevare che vi sono state alcune omissioni ed incongruenze che hanno caratterizzato, oggettivamente, la gestione di questa drammatica problematica nel nostro Paese, tanto che la Rivista Forbes, in data 13 aprile 2020, ha pubblicato un report, redatto in collaborazione con i ricercatori del King’s College di Londra, che colloca l’Italia alle ultime posizioni nella classifica del Deep Knowledge Group sull’efficacia delle misure adottate .
a) Partiamo dal blocco dei voli aerei da e per la Cina, ivi compresi i voli cargo.
Apparentemente il nostro Governo, venuto a conoscenza del diffondersi dell’epidemia in Cina, è stato tra i primi ad adottare misure di estremo rigore, finalizzate al contenimento della possibilità di contagio, quale appunto quella del blocco dei voli.
In realtà, come fu ben presto osservato (v. ad esempio il commento pubblicato da Marco Giovannelli sulla Rivista “Gli Stati Generali”), si trattò di una disposizione “rozza ed insufficiente”. In effetti questo provvedimento ebbe un grande effetto mediatico ma risultò privo di reali benefici pratici in quanto, come è evidente, per fare un esempio, non ha senso chiudere uno solo dei due battenti di un portone. La maggioranza del traffico aereo fra Italia e Cina non avviene con voli diretti, ma mediante voli che fanno scalo a Londra, Parigi, Francoforte, Amsterdam, Dubai o altre località estere che non avevano bloccato i voli dalla Cina.
In quei giorni, dunque, continuarono ad arrivare nel nostro Paese, senza alcuna misura di contenimento o previsione di quarantena, soggetti provenienti dalla Cina e che sbarcavano nei nostri aeroporti mediante scali intermedi. Sarebbe stato possibile intervistare tutti i passeggeri in arrivo ai nostri aeroporti o alle nostre frontiere chiedendo se erano stati in Cina nei 14 giorni precedenti, ma non fu fatto.
Si sarebbe invece dovuto operare non già il blocco, di per sé assolutamente insufficiente, di tutti i voli provenienti dalla Cina ma un blocco “soggettivo”, mirato alle aree territoriali di provenienza, volto ad impedire l’ingresso in Italia, o a prevedere rigorose misure di quarantena, nei confronti di tutti coloro i quali, a prescindere dal fatto che cercassero di accedere via terra o sbarcassero in un aeroporto, avessero soggiornato nella regione dell’Hubei nelle ultime due settimane.
D’altro canto, l’estensione del blocco anche ai voli cargo (poi giustamente revocato dopo alcuni giorni) ebbe quale unico effetto quello di penalizzare pesantemente le nostre esportazioni in Cina, laddove tutti gli altri Paesi continuarono invece a far transitare le loro merci verso quel mercato estero.
b) Va ora fatta una seconda considerazione. Il nostro Paese si fece trovare sostanzialmente impreparato ad affrontare la pandemia, sebbene da circa dieci anni fosse stato elaborato un piano pandemico, sulla base dell’esperienza e dei timori generati a suo tempo dalla diffusione del Virus H1N1, comunemente noto come “febbre da influenza suina”.
Era stato predisposto al riguardo (anche se questo dato non è mai stato menzionato, ad esempio, dai mass media, perché probabilmente conosciuto solo dagli “addetti ai lavori”) il “Piano Nazionale di preparazione e risposta ad una pandemia influenzale”, rielaborato nel 2005, che nel suo incipit così affermava: “Dalla fine del 2003, da quando cioè i focolai di influenza aviaria da virus A/H5N1 sono divenuti endemici nei volatili nell’area estremo orientale, ed il virus ha causato infezioni gravi anche negli uomini, è diventato più concreto e persistente il rischio di una pandemia influenzale. Per questo motivo l’OMS ha raccomandato a tutti i Paesi di mettere a punto un Piano Pandemico e di aggiornarlo costantemente seguendo linee guida concordate”.
In detto Piano Pandemico era stato così osservato, giustamente: “la maggiore mobilità della popolazione a livello mondiale e la maggior velocità dei mezzi di trasporto, renderebbero particolarmente problematico il controllo della diffusione dell’infezione. L’incertezza sulle modalità e i tempi di diffusione determina la necessità di preparare in anticipo le strategie di risposta alla eventuale pandemia, tenendo conto che tale preparazione deve considerare tempi e modi della risposta. Infatti, se da una parte un ritardo di preparazione può causare una risposta inadeguata e conseguenti gravi danni per la salute, dall’altra, qualora l’evento non accada, un investimento eccessivo di risorse in tale preparazione può, in un quadro di risorse limitate, causare sprechi e stornare investimenti da altri settori prioritari”. Veniva rilevato che “emergenze globali richiedono risposte coordinate e globali, dove il momento di pianificazione deve essere condiviso dai responsabili delle decisioni ed il momento dell’azione deve essere conosciuto prima del verificarsi dell’evento in modo che ognuno sia in grado di ‘giocare’ il suo ruolo e le sue reponsabilità. Una pandemia influenzale costituisce una minaccia per la sicurezza dello Stato: il coordinamento condiviso fra Stato e Regioni e la gestione coordinata costituiscono garanzia di armonizzazione delle misure”.
Al capitolo 7, concernente le “Misure chiave” da adottare in caso di fase pandemica, veniva affermato che “per contenere gli iniziali focolai nazionali attribuibili a virus pandemico e ridurre il rischio di trasmissione” bisognava non solo adottare “misure di sanità pubblica quali la limitazione degli spostamenti, l’isolamento e la quarantena dei casi e dei contatti” ma occorreva anche provvedere agli “interventi di sanità pubblica che possono risultare efficaci per limitare e/o ritardare la diffusione dell’infezione” basati “sulla riduzione dei contatti tra persone infette e persone non infette, e/o sulla minimizzazione della probabilità di trasmissione dell’infezione in caso di contatto attraverso comuni norme igieniche e misure di barriera (ad es. dispositivi di protezione individuale, DPI, tra cui le c.d. mascherine).
Era altresì sottolineata, in relazione alle fasi interpandemiche, la necessità di preparazione di appropriate misure di controllo della trasmissione dell’influenza pandemica in ambito ospedaliero, mediante “approvvigionamento dei dispositivi di protezione individuale (DPI) per il personale sanitario”; il “controllo del funzionamento dei sistemi di sanificazione e disinfezione” ed il “censimento delle disponibilità di dispositivi meccanici per l’assistenza ai pazienti”.
Invece, non solo negli anni precedenti al diffondersi dell’epidemia il “Piano Nazionale di preparazione e risposta ad una pandemia influenzale” non è mai stato messo in atto, ma, anche nelle settimane in cui già si erano diffuse le notizie circa la propagazione del morbo in Cina, non si è pensato di darvi attuazione, sia pur tardivamente, laddove, ad esempio, esso prevedeva l’approvvigionamento di adeguati dispositivi di protezione individuale, in primo luogo per il personale sanitario.
Si è invece assistito ad un rapido esaurirsi delle mascherine, in un Paese che non aveva provveduto a farne scorta, come invece oculatamente disponeva il Piano nazionale, con i sanitari costretti a operare negli ospedali privi dei minimali mezzi di cautela, e proprio ciò è stata una delle cause dell’altissimo numero di decessi tra il personale sanitario.
Al contempo, vi è stato un mancato coordinamento tra intervento a livello statale e provvedimenti regionali, laddove il Piano pandemico indicava proprio nel coordinamento una delle chiavi di successo per un’efficace attività di contenimento della pandemia.
c) L’iniziale sottovalutazione del problema. Anche presso organismi altamente qualificati e larga parte del mondo politico, la problematica del COVID-19 fu affrontata con una certa superficialità e senza comprendere appieno le conseguenze che sarebbero derivate dalla diffusione dell’epidemia.
Basterebbe osservare che ancora il 26 febbraio Walter Ricciardi, nominato dal Ministro della salute Roberto Speranza alla carica di Consigliere per le relazioni dell’Italia con gli organismi sanitari internazionali, dichiarava che a causa delle misure adottate in Veneto, ove era stato effettuato uno screening, mediante tamponi, a larghi strati della popolazione, al fine di evidenziare i soggetti positivi al virus, il Ministero della Salute “per obbligo di trasparenza” era stato costretto a comunicare all’OMS (Organizzazione Mondiale della sanità) i dati numerici degli individui “positivi” che apparivano “un po’ fuorvianti ed allarmistici”, affermando che sarebbe invece bastato applicare tutte le misure indicate nelle ordinanze ministeriali per pervenire rapidamente al contenimento dell’epidemia.
Il giorno precedente il Presidente del Consiglio sosteneva che si era “esagerato” nel fare in alcune aree del nostro territorio dei tamponi di massa, aggiungendo che ciò aveva rischiato di “drammatizzare” l’emergenza sanitaria.
Uno degli esempi maggiormente paradigmatici di questa sottovalutazione della virulenza del virus è rappresentato dalla campagna mediatica incentrata sullo slogan “Milano non si ferma”, promosso dall’Unione dei Brand della Ristorazione italiana, lanciato il 27 febbraio dal sindaco di Milano, Sala, su video e hashtag e riproposto su moltissimi account social. In tale data il sindaco chiedeva in effetti al Governo una parziale “riapertura” dei locali, giudicando ormai attenuato il timore del contagio. Sempre in quei giorni, alcuni dei leader dei partiti maggiormente rappresentativi partecipavano ad “aperitivi contro la paura” o invitavano ad “aprire” ed anzi a “spalancare” tutto, ivi comprese le discoteche ed i bar, nei cui confronti era stato emesso nelle settimane precedenti un provvedimento di temporanea chiusura, al fine di evitare gli assembramenti e conseguentemente la potenziale diffusione del virus.
d) Vi è poi la vicenda della mancata elevazione a “zona rossa” dell’area compresa tra Alzano Lombardo e Nembro, che sta costituendo anche oggetto di indagine da parte della Procura della Repubblica di Bergamo.
Occorre al riguardo operare una breve cronistoria dei fatti, a partire dall’iniziale diffondersi della pandemia nel nostro Paese.
Il 31 gennaio due turisti provenienti dalla Cina risultarono positivi al COVID-19. Il 21 febbraio vennero confermati sedici casi di soggetti positivi a Codogno. Una volta scoperto il primo focolaio interno, fu disposta la messa in quarantena di tutta la popolazione di 11 comuni, in Lombardia e Veneto. Il 23 febbraio il Consiglio dei ministri emanava il decreto legge n. 6, che sanciva il divieto di ingresso e di uscita da tali 11 comuni con focolai attivi, e la sospensione di manifestazioni ed eventi in detti territori. Nei giorni successivi il Presidente del Consiglio dei Ministri emetteva una serie di decreti (DPCM) in virtù dei quali le misure di restrizione venivano progressivamente estese.
In questo contesto si inserisce la drammatica vicenda che ha interessato i comuni di Alzano Lombardo e Nembro.
Già il 2 marzo l’Istituto Superiore della Sanità aveva inoltrato un parere al Governo evidenziando che occorreva istituire una “zona rossa” anche in quei territori.
Il 3 marzo veniva segnalata dalla Regione Lombardia la massiccia presenza di focolai in dette aree, al fine di far considerare anche questa zona come “area rossa”, al pari di quanto era avvenuto in precedenza nelle zone ove erano stati individuati i primi massicci casi di diffusione del morbo. I vertici regionali chiedevano cioè al Governo un provvedimento simile a quello adottato, il 23 febbraio, per gli undici comuni del Lodigiano, con l’istituzione di ben 35 postazioni di “blocco”, con relativi check point, sorvegliate dalle forze dell’ordine, a seguito dell’ordinanza firmata il 21 febbraio dal ministro Speranza.
La Regione avrebbe avuto il potere di provvedere ad una “chiusura” dell’area, in virtù dell’art. 32 della l. n. 833/1978 (detta norma, pur stabilendo che spetta al Ministro della Sanità emettere le ordinanze in materia di igiene e sanità pubblica, precisa infatti che “nelle medesime materie sono emesse dal Presidente della Giunta Regionale e dal Sindaco ordinanze di carattere contingibile e urgente, con efficacia estesa rispettivamente alla regione o a parte del suo territorio comprendente più comuni e al territorio comunale), dell’art. 117 del d. lgs. n. 112/1998 e dell’art. 50 del T.U. sull’ordinamento degli enti locali, ma era comunque necessaria una decisione dell’Esecutivo per coordinare con la Regione l’utilizzo dei Reparti dell’Esercito, al fine di presidiare questa eventuale nuova zona off limits, impedendo l’ingresso e l’uscita.
In effetti in precedenza le “zone rosse” di Vò e Codogno erano state istituite di concerto con la prefettura, ed in virtù dell’impiego della forza pubblica, il cui intervento era stato autorizzato dal Governo.
D’altro canto in quelle settimane il Ministro della Salute aveva stigmatizzate le “scelte unilaterali di singoli territori” ed era stato rilevato dal Ministro Boccia che ogni amministrazione territoriale, prima di emanare qualsiasi tipo di ordinanza, avrebbe dovuto raccordarsi con l’Autorità nazionale al lavoro in maniera permanente presso la sede della Protezione civile, evidenziando che agire in maniera autonoma, senza un raccordo nazionale, rischiava solo di crare caos.
Per cinque giorni peraltro il Governo non adottò alcun provvedimento al riguardo, ed in particolare non delimitò come “zone rosse” questi territori, attendendo l’ 8 marzo per dichiarare infine “zona rossa” tutta la Lombardia.
Questi cinque giorni di ritardo risultarono fatali, in quanto provocarono il diffondersi del contagio e comportarono la perdita di molte vite umane, giacchè, in assenza di limitazioni, il virus si estese in maniera impressionante.
e) Nella notte tra il 7 e l’8 marzo il Presidente del Consiglio emetteva un nuovo decreto (DPCM), che sostituiva quelli precedenti del primo marzo e del 4 marzo, con misure volte a dichiare “zona rossa” tutta la Lombardia ed altre 14 province del Centro Nord (Modena, Parma, Piacenza, Reggio Emilia, Rimini, Pesaro e Urbino, Alessandria, Asti, Novara, Verbania, Vercelli, Padova, Treviso, Venezia). Peraltro già verso il pomeriggio del giorno 7, a causa di una fuga di notizie, erano comparsi su vari siti web bozze del decreto, e ciò aveva causato una massiccia “fuga” dalle province del Nord di molti lavoratori e studenti originari del Sud Italia, che volevano in tal modo evitare di rimanere bloccati nelle “zone rosse” e cercavano conseguentemente di dirigersi verso le regioni di origine.
Ciò costrinse molti Governatori delle Regioni del Sud ad adottare misure di “quarantena” e di blocco nei confronti di chi proveniva dai territori del Nord Italia, al fine di evitare il diffondersi della pandemia, creando così ulteriori disagi e rischi di contrasti tra il Nord ed il Sud dell’Italia.
f) Non è stato gestito in maniera corretta il fenomeno della diffusione del COVID-19 nelle RSA, e ciò ha determinato una strage di anziani malati cronici non autosufficienti. Non sono stati forniti i minimali dispositivi di protezione individuale, e gli operatori delle case di riposo sono stati lasciati soli e senza mezzi.
Trattasi, certemente, di errori e carenze che non hanno caratterizzato solo l’Italia, come comprovato dal fatto che, secondo quanto dichiarato dal direttore dell’Organizzazione mondiale della sanità per il settore europeo, Hans Kluge, quasi metà delle persone morte per coronavirus in Europa era residente in case di cura, e che conseguentemente “C’è un urgente ed immediato bisogno di ripensare il modo in cui operano le case di cura”, dovendosi sottolineare che, a causa delle incurie ed inefficenze dei vari Stati europei “le persone compassionevoli e dedicate che lavorano in quelle strutture – spesso sovraccaricate di lavoro, sottopagate e prive di protezione adeguata – sono gli eroi di questa pandemia”.
Peraltro, il fatto che gli errori di gestione abbiano coinvolto la maggioranza dei Paesi non può comunque far dimenticare quanto è avvenuto in Italia, ove presso le RSA vi è stato un impressionante diffondersi dei focolai di contagio, con un numero enorme di decessi, dovuti al fatto che in tal caso i pazienti era particolarmente esposti, per le loro peculiari condizioni fisiche, alle forme più virulenti del virus.
Il personale socio sanitario, già scarso in precedenza, è stato pesantemente colpito dalla diffusione del COVID-19, e così i pazienti si sono trovati senza assistenza, in strutture spesso medio piccole che rendevano del tutto impossibile l’adozione di adeguate misure di distanziamento.
Venendo ad esempi concreti, l’Amministratore Unico della Casa di cura Domus Aurea, di Chiaravalle Centrale, in provincia di Catanzaro, ha parlato di una vera e propria “carneficina, per la quale … chi ci ha lasciato soli, dovrà pagare”.
Per quanto concerne la drammatica, notissima vicenda del Pio Albergo Trivulzio, per settimane il personale sanitario ed infermieristico ed i soggetti ivi ricoverati non sono stati dotati di mascherine, risultando esse mancanti, come denunciato dal geriatra Luigi Bergamaschini, che operava all’interno della struttura.
Analoga la situazione in moltissime altre RSA, e ciò ha indotto svariate Procure ad instaurare procedimenti penali per supposti reati di epidemia colposa, a carico di ignoti .
Come dichiarato da Paola Pedrini, Segretario Generale della FIMMG (Federazione italiana dei medici di medicina generale) la situazione nelle RSA in occasione della diffusione del COVID-19 appariva “tragica”; infatti “ci sono stati contagi in particolare perché non è stata fatta una chiusura precoce dei servizi e il virus si è diffuso, arrivando gente dall’esterno in visita agli anziani”.
g) Aumento dei decessi per altre patologie e mancata assistenza ai malati non COVID-19. Con il diffondersi dell’epidemia il sistema sanitario italiano si è dovuto focalizzare sull’emergenza epidemiologica, risultando peraltro spesso inadeguato al riguardo, e ciò ha comportato una riduzione delle cure per tutti coloro che risultavano affetti da altre patologie, giacchè molti Reparti e talora interi ospedali venivano trasformati in improvvisate “terapie intensive”.
Due esempi per tutti. Il lockdown imposto dall’epidemia ha avuto un fortissimo impatto negativo sui malati di sclerosi multipla, come riferito dal prof. Diego Centonze, professore ordinario di neurologia presso l’Università di Roma Tor Vergata, essendo venuta meno la possibilità di fornire loro le adeguate cure.
D’altro canto il numero dei morti per infarto è triplicato, come rilevato dalla Società Italiana di Cardiologia (SIC) per bocca del suo Presidente, Ciro Indelfi, Ordinario di Cardiologia dell’Università Magna Grecia di Catanzaro.
Le ambulanze infatti dovevano trasportare un enorme numero di malati per COVID-19, e conseguentemente talora gli infartuati non hanno potuto essere prontamente ricoverati. Inoltre molti reparti di cardiologia sono stati depotenziati in quei giorni, per permettere di fronteggiare l’epidemia, “dirottando” i medici cardiologi alle terapie intensive.
h) Mancata effettuazione di tamponi rino faringei. La Circ. Min. Salute n. 9774 del 20 marzo 2020 (sostitutiva della precedente circolare n. 9480 del 19 marzo 2020), emessa a seguito del diffondersi dell’epidemia in Italia, appariva caratterizzata da una posizione di sostanziale contrarietà ad un ampliamento della fascia dei soggetti asintomatici da sottoporre ad accertamento, e di scetticismo circa l’utilità di questa estensione dello screening.
Vennero infatti confermate le indicazioni espresse dal Ministero della Salute nella circolare prot. N. 0005443 – 22/02/2020 – DGPRE/DGPRE – P, con cui si raccomandava che l’esecuzione dei tamponi fosse riservata ai soli casi sintomatici di ILI (Influenza – Like Illness, Sindrome Simil-Influenzale) non attribuibili ad altra causa e con link epidemiologico ad aree a trasmissione secondaria, a casi di ARDS (Acute Respiratory Distress Syndrome, Sindrome da distress respiratorio acuto) e di SARI (Sever Acute Respiratory Infections, Infezione Respiratoria Acuta Grave), oltre ai casi sospetti di COVID–19 secondo le definizioni di cui all’allegato 1 di questo documento. In assenza di sintomi, il test non veniva ritenuto sostenuto da un razionale scientifico, affermandosi che esso non forniva un’informazione indicativa ai fini clinici e poteva essere addirittura fuorviante.
E’ interessante notare che in data 4 febbraio nella provincia di Padova, sotto l’egida dell’Università di Padova, era stato proposto un piano di test da effettuare con riferimento a tutti i soggetti provenienti dalla Cina, ove l’emergenza epidemiologica appariva particolarmente drammatica.
Peraltro, con missiva datata 11 febbraio 2020 del Direttore Generale dell’Area Sanità e Sicurezza della Regione Veneto, avente ad oggetto: “Effettuazione Test di laboratorio per 2019-n CoV a soggetti asintomatici rientranti dalla Cina”, inviata al Direttore Generale dell’Azienda Ospedale – Università di Padova; al Direttore UOC Microbiologia e Virologia, Prof. Crisanti, ed all’Assessore alle Politiche sanitarie, si stigmatizzava, in sostanza, detta iniziativa, in quanto si chiedeva «di conoscere sulla base di quali indicazioni ministeriali, o internazionali» si fosse ipotizzata tale scelta di sanità pubblica, e si ricordava che ogni spesa associata alle prestazioni in argomento su soggetti asintomatici non rientrava tra le prestazioni coperte dal fondo del SSN (prospettando in tal modo il rischio di incorrere, in caso contrario, in procedimenti di responsabilità per danno erariale), rilevandosi altresì criticamente che il carico di lavoro imposto dall’effettuazione di detti test avrebbe potuto «impattare sulla gestione organizzativa e la tempistica di risposta degli esami effettuati su pazienti sintomatici».
Successivamente, il Direttore Generale inviava una missiva volta espressamente a vietare, sulla base delle Direttive del Ministero della Salute, i test agli asintomatici. In detta missiva, avente ad oggetto: “Richiamo in ordine a indicazioni fornite con la circolare del 22 febbraio 2020”, così si affermava: «Si ritiene opportuno sottolineare che le indicazioni emanate dal Ministero della Salute e ribadite nella circolare prot. N. 0005443 – 22/02/2020 – DGPRE/DGPRE-P, raccomandano che l’esecuzione dei tamponi sia riservata ai soli casi sintomatici di ILI (Influenza – Like Illness, Sindrome Simil -Influenzale) e SARI (Sever Acute Respiratory Infections, Infezione Respiratoria Acuta Grave), oltre che ai casi sospetti di COVID-19 secondo la definizione di cui all’allegato 1 della suddetta circolare».
Il prof. Crisanti evidenziava, in contrasto a detta impostazione palesemente contraria all’effettuazione di test ai soggetti asintomatici, la validità delle ragioni scientifiche volte invece a supportare l’ iniziativa diretta ad estendere l’effettuazione dei tamponi, e sollecitava Zaia, Governatore della Regione Veneto, a procedere il tal senso.
Il 22 febbraio il Governatore Zaia decideva di avviare la procedura dei test agli asintomatici; lo stesso giorno il Ministero della Salute inviava invece una circolare ove veniva prescritto che i test dovessero essere riservati unicamente ai casi sintomatici.
Il 25 febbraio il Presidente del Consiglio Conte affermava che la prova tampone non andava «fatta diffusamente», e che negli ultimi giorni si era «esagerato» nel fare i tamponi, sostenendo che questo screening diffuso «non risponde alle prescrizioni della comunità scientifica», osservando che bisognava seguire tali prescrizioni «perché altrimenti finiremmo per drammatizzare un’emergenza sanitaria».
In altri termini, non si voleva “spaventare” la popolazione, ponendo in luce la gravità del fenomeno pandemico.
Il tamponamento degli asintomatici veniva censurato perchè esso permetteva di far emergere un alto numero di soggetti positivi, e questo dato poteva turbare l’opinione pubblica, che doveva invece essere rassicurata circa il fatto che l’epidemia era un fenomeno di limitate proprorzioni ed assolutamente sotto controllo, grazie all’intervento delle autorità statali.
Il giorno successivo, 26 febbraio, Walter Ricciardi, membro del Consiglio esecutivo dell’Organizzazione mondiale della sanità e già Presidente dell’Istituto superiore della Sanità, in un’intervista resa al Corriere della Sera dichiarava espressamente: «Un errore fare i tamponi agli asintomatici».
Secondo Ricciardi i casi di contagio da coronavirus in Italia erano stati sovrastimati e «chi ha dato l’indicazione di fare i tamponi anche alle persone senza sintomi, gli asintomatici, ha sbagliato». Ricciardi affermava che a quella data i casi verificati di infezione da coronavirus erano solo circa 190.
Il prof. Ricciardi si esprimeva criticamente nei confronti della strategia di lotta e contenimento al Coronavirus adottata in Veneto; veniva affermato (citiamo letteralmente) che detta strategia «non è stata corretta perché ha derogato all’evidenza scientifica».
Infatti le linee guida dell’Organizzazione mondiale della sanità, riprese dall’Ordinanza del Ministro della Salute del 21 febbraio, “non erano state applicate” laddove esse «prevedevano che fossero fatti i test solo su soggetti sintomatici in presenza di due caratteristiche: il contatto con malati di COVID-19 accertati e la provenienza da zone di focolai».
Invece le diffuse operazioni di accertamento preventivo operate in Veneto a giudizio del prof. Ricciardi avevano provocato solo «confusione e allarme sociale».
Si aggiungeva criticamente che a causa delle misure adottate in Veneto il Ministero della Salute «per obbligo di trasparenza» era stato costretto a comunicare all’OMS questi dati “un po’ fuorvianti ed allarmistici”, e si sottolineava che sarebbe invece bastato applicare tutte le misure indicate nelle ordinanze ministeriali per pervenire rapidamente ad una fase di contenimento dell’epidemia.
Emergeva dunque da queste dichiarazioni una notevole sottovalutazione del problema ed un’attenzione focalizzata esclusivamente sulla volontà di non far emergere la gravità del fenomeno pandemico che si stava sviluppando.
Successivamente, alcune ASP e Direttori Generali di Aziende Sanitarie addirittura vietarono, sulla base delle Direttive del Ministero della Salute, i test agli asintomatici, rilevando che, a pena di responsabilità erariale, l’esecuzione dei tamponi doveva essere riservata ai soli casi sintomatici di ILI e SARI, oltre che ai casi sospetti di COVID-19.
Ad esempio l’Asp di Catania, al pari di altri enti, inibì espressamente la possibilità di eseguire dei test di accertamento della positività del COVID-19 a favore di soggetti asintomatici che, volontariamente, ne avessero fatto richiesta e che avessero inteso affrontare il relativo costo; la richiesta di sospensiva di detto censurabile provvedimento, formulata dal rappresentante legale di un laboratorio medico privato, è stata repinta dal T.A.R., sez. dist. Catania, con ord. n. 384 del 27 aprile 2020.
A comprova invece della bontà della strategia basata su un ampio accertamento dei soggetti positivi al virus, mediante tamponamenti estesi agli asintomatici (da non confondere con i test sierologici, utili prevalentemente a fini statistico – epidemiologici), e dell’errore di prospettiva di coloro che combattevano detta iniziativa, basterebbe osservare come in alcune recenti dichiarazioni, rese anche dai componenti dell’Organizzazione mondiale della Sanità e del Comitato tecnico scientifico, sia stato finalmente riconosciuto, seppur con notevole ritardo, che una delle migliori metodologie per un’ efficace attività di contrasto consiste proprio nella ricerca su scala nazionale dei soggetti positivi, mediante tamponamenti effettuati in un rapido arco temporale.
In una recente intervista il Direttore di Infettivologia dell’Istituto Superiore di Sanità ha così affermato: «Il Veneto ha fatto molto bene, ha fatto molti tamponi sul territorio, va fatto così in tutta Italia. Bisogna fare tamponi anche ad asintomatici e contatti stretti».
Molti decessi avrebbero potuto essere evitati qualora fossero stati fatti test molecolari sui familiari conviventi delle persone esposte al virus, a causa della loro attività o della loro condizione di vulnerabilità dal punto di vista clinico, e tamponi a tappeto nelle zone dei cluster epidemici.
Si può osservare come il basso numero di decessi in Germania debba essere attribuito principalmente all’ampia campionatura adottata, resa possibile da un programma in tal senso, effettuato a livello locale da ospedali, cliniche e laboratori, nonché da un buon livello organizzativo del sistema sanitario nel suo complesso.
Il ridotto indice di mortalità del Veneto, come sottolineato dalla prestigiosa Harvard Business Review, è ricollegabile in gran parte all’ampiezza della campionatura mediante tamponi.
La citata Rivista evidenzia che “un maggior numero di test” vuol dire anche “operatori sanitari più protetti e un più rapido ed efficace tracciamento dei contatti”, tale da evitare di rendere gli ospedali dei luoghi di inconsapevole trasmissione del virus.
Gli studi epidemiologici collegano ormai un’efficace strategia di contenimento del virus ad una compagna di tamponi di massa e, come già osservato, ora anche l’OMS, con un revirement rispetto al proprio iniziale atteggiamento di ostilità, caldeggia l’effettuazione di tamponi di massa.
i) Un esempio emblematico dell’importanza dell’effettuazione dei tamponi è rappresentato dal primo caso italiano di positività al virus (il c.d. “paziente 1”) che venne scoperto, il 20 febbraio, da una donna medico, l’anestesista Annalisa Malara dell’ospedale di Codogno, che decise di sottoporre a tampone un paziente che era stato ricoverato con sintomi di polmonite, andando in tal modo contro i protocolli delineati dal Ministero, tanto che alla sua richiesta di autorizzazione all’azienda sanitaria venne risposto che ella poteva far fare il test di controllo solo a condizione di assumersene personalmente la responsabilità. La scelta di fare il tampone si rivelò risolutiva e permise di salvare la vita del paziente, che rischiava di morire e che venne poco dopo intubato. La dottoressa il 2 giugno, nel giorno in cui il Presidente della Repubblica ha visitato Codogno per rendere omaggio alle vittime della pandemia, è stata insignita del premio “Rosa Camuna”, uno dei più importanti riconoscimenti della Regione Lombardia assegnato a chi si sia particolarmente distinto per il suo impegno sociale.
In conclusione, l’Italia non ha seguito l’esempio di Paesi “virtuosi” che si sono avvalsi dei metodi più efficienti per la mappatura del contagio e per il trattamento dei pazienti ospedalizzati. In primis una collezione di dati costruita con criteri di uniformità ed adeguata all’emergenza, l’utilizzo di analisi dei big data socio-medico-tecnologici, e la realizzazione di un sistema di tracciamento manuale ed automatico con intelligenza artificiale affiancati.
Il nostro Governo si è invece lasciato prendere la mano da un inseguimento “emozionale” dell’emergenza, improvvisato e non coordinato sia in fase di lockdown che di riapertura.
Ciò ha bloccato inutilmente molti rami del tessuto produttivo che in altri Paesi invece sono stati lasciati liberi di operare e contrastare efficacemente l’emergenza.
Al contenpo tale impostazione sembra priva di una qualsivoglia strategia, sia per accelerare la ripresa che per affrontare un’eventuale riaccensione del contagio.
Critiche autorevoli sono state mosse all’app. Immuni, per esempio, dal prof. Crisanti, che la considera una grande perdita di risorse con una resa assai ridotta, risultando proficua solo qualora venisse utilizzata dalla maggioranza della popolazione.
Essa infatti non coglie le possibilità offerte dal General Data Protection Regulation e non traccia la traiettoria delle persone ma solo i loro contatti, non è interfacciata con il data base sanitario (ASL, Ospedali, Protezione Civile), non agevola alcuna misura preventiva ma permette solo misure ex post: in caso di contagio l’individuo dovrebbe abilitare il suo cellulare a comunicare l’elenco dei contatti ad un servizio centrale, che poi si deve prendere l’onere di rintracciare e contattare le persone ritenute “contigue”.
Lasciando inoltre l’adozione dell’app alla responsabilità dei singoli (autorizzazione all’uso dei dati personali solo a valle del contagio accertato, cosa che pochi faranno), gli esiti saranno scarsi. Una app che abbia la speranza fondata di poter funzionare dovrebbe generare un data base anonimizzato in cui gli algoritmi di intelligenza artificiale e machine learning calcolano i rischi individuali e li inviano sia al singolo che al sistema sanitario nazionale (metodo che la Francia intende seguire).
Un semplice computo mostra che con 50.000 addetti ai tamponi che lavorino a tempo pieno a domicilio sulle indicazioni del SSN la situazione COVID-19 potrebbe essere tenuta sotto controllo. Conoscere quale è il grado (velocità ed intensità) di diffusione del virus in centri di aggregazione (famiglie, scuole, aziende) è il modo più efficace per determinare cosa tenere chiuso, cosa riaprire con minimi accorgimenti, cosa riaprire con accorgimenti più incisivi.
Accanto alla sorveglianza attiva sui contatti dei contagiati e sui tamponi di test, è indispensabile eseguire quanto prima, come raccomandato dal prof. Parisi (presidente dell’Accademia dei Lincei) nella sua audizione al Senato, una serie di test sierologici su un campione statisticamente significativo e correttamente stratificato di residenti in Italia. Secondo Parisi, la prevista indagine ISTAT di 150000 test sierologici non ha le caratteristiche desiderabili per ottenere tempestivamente le informazioni necessarie.
Pier Paolo Rivello, già procuratore generale militare presso la Corte di Cassazione
Alberto Lusiani, ricercatore Scuola Normale Superiore Pisa