Crisi e liquidità delle PMI: alla ricerca di possibili soluzioni

Le iniziative per il rilancio dell’Italia 2020-2022, da poco raccolte nel rapporto del c.d. Comitato Colao, presentano ampi spunti di riflessione ed interessanti sollecitazioni che meritano attenzione.
Il documento individua sei ambiti di intervento, fissando degli obiettivi molto chiari e condivisibili che puntano a rendere il nostro sistema paese più resiliente a futuri shock economici, più competitivo e reattivo per invertire momenti di crisi, più sostenibile ed equo per ridurre il peso della crisi sulle fasce più deboli. Sorprende però che tra le maggiori criticità per il nostro sistema economico-sociale non si faccia menzione in modo forte della bassa natalità, e di quanto questa pesa e peserà sul nostro futuro, anche previdenziale. Si è ancora in tempo per evidenziare tale criticità e pensare ad interventi di sostegno alle famiglie per farvi fronte. Dal contesto di analisi, il documento poi espressamente esclude oltre alla fiscalità ed al welfare – in ragione della loro complessità – anche la giustizia civile non rinunciando però a sottolinearne la strategica importanza e sollecitando interventi strutturali di ammodernamento tra cui spicca quello della digitalizzazione dei procedimenti.
In questo articolato contesto di riferimento, vogliamo soffermarci sul settore delle imprese e del lavoro ed in particolare sulla individuazione dei rimedi proposti per aumentare la liquidità delle imprese risanabili e per ridurre l’impatto dei contenziosi post crisi.
Le proposte avanzate al riguardo muovono da un dato pesante: le previsioni del FMI di perdita del Pil in Italia si aggirano almeno intorno al 9% nel 2020 e ciò a fronte di un tasso di crescita molto basso dell’Italia già a partire dalle precedenti crisi tra il 2008 ed il 2011. Si comprende dunque la preoccupazione del Comitato su questo punto e soprattutto si nota l’intuizione di far compiere un salto al nostro sistema di accesso alla liquidità, non più intermediato solo dalle banche.
Da anni si parla di disintermediazione bancaria. Un fenomeno complesso legato ai cambiamenti dell’economia ed alle diverse forme di investimento e raccolta del risparmio non più assorbito solo dalle banche. Di questo si parla sin dagli anni novanta dello scorso secolo, ovvero dalla nascita della c.d. attività parabancaria per designare quei nuovi soggetti e quelle nuove operazioni di finanziamento dell’attività di impresa e di raccolta del risparmio che comunemente conosciamo come leasing, factoring, fondi comuni di investimento, sgr etc.

Oggi la disintermediazione bancaria è dovuta, per alcuni versi, alla necessità di neutralizzare quanto più possibile il sistema bancario dalle profonde e cicliche crisi economiche globali, accentuate nelle loro ricadute sociali dai debiti degli Stati; tendenzialmente elevati, soprattutto in quelli in cui si mantiene un sistema di welfare.
Per altri versi, anche dallo sviluppo di nuove forme di accesso al credito attraverso la diffusione delle piattaforme digitali. Basti pensare al peer to peer lending, molto diffuso nei Paesi anglosassoni. Digitalizzazione che è anche frutto delle potenti spinte che derivano dal c.d. “capitalismo della sorveglianza” (Shoshana Zuboff) che orienta verso scelte di consumo e di vita sempre più orientate, se non eterodeterminate.
Se alziamo dunque lo sguardo oltre i nostri abituali riferimenti, ci si accorge di impressionanti cambiamenti in atto sui quali occorreranno scelte politiche di grandissimo respiro e responsabilità.
Questo vale dunque ancora di più per il nostro sistema imprenditoriale e per la gestione delle crisi che in esso possono manifestarsi.
Come noto l’impianto di disciplina delle crisi di impresa (la c.d. riforma Rordorf) – rinviato causa Covid a settembre 2021 – imposta su nuove basi l’approccio alla crisi sempre più legato alla governance ed alla predisposizione di adeguati assetti organizzativi societari.
La riforma si inscrive nella cornice della c.d. rescue culture che ormai pervade l’orientamento comunitario su queste problematiche. Si tratta della diffusione di una cultura del risanamento aziendale che passa attraverso la prevenzione della crisi.
I punti di riferimento di questa innovazione si rinvengono in due importanti fonti. La prima è stata la Raccomandazione 2014/135/UE della Commissione che ha delineato un nuovo approccio del fallimento delle imprese e dell’insolvenza per fornire un quadro comune alle legislazioni nazionali, ad un tempo sollecitando la facilitazione dei finanziamenti dei piani di ristrutturazione e il riconoscimento di una nuova chance all’imprenditore “onesto ma sfortunato”.
La seconda e più importante fonte è la Direttiva UE 2019/1023 che ha il pregio di trattare la materia della crisi in termini strategici per il corretto funzionamento del mercato interno, per rimuovere gli ostacoli alle libertà di stabilimento, di circolazione delle persone, capitali e merci, e per garantire più alti livelli di recupero sui crediti deteriorati.
Questi macro obiettivi passano poi attraverso norme specifiche, tra cui quelle che presiedono al sistema di allerta e di monitoraggio della continuità aziendale (c.d. going concern value).

Venendo dunque alla nostra riforma Rordorf questa si baserà come noto sull’allerta, ovvero su un sistema di norme che sollecitano gli amministratori a monitorare la continuità aziendale e a adottare per tempo le misure necessarie a risolvere la crisi ed evitare il fallimento.
Questo sistema – se ben usato e non piegato a fini repressivi – potrebbe rispondere all’obiettivo indicato dal Comitato Colao ovvero quello di evitare il ricorso a procedure concorsuali per non bloccare i flussi di liquidità all’interno delle filiere produttive.
L’obiettivo è condivisibile, occorre però pensare – per tempo – a come sostenere il fabbisogno finanziario delle imprese che entrano nel sistema di allerta. Se diamo un’occhiata ai criteri di valutazione del merito creditizio oggi in vigore, ci rendiamo conto che un’impresa che presenta indici di crisi, seppure potenzialmente risanabile, non riuscirà di certo ad accedere al credito bancario. Non solo, ma probabilmente si troverà in una situazione in cui questo credito è stato già ristretto, se non del tutto revocato. E’ vero che il Governo ha messo in campo incentivi alla
liquidità alle imprese anche attraverso la garanzia Sace; ma questo non basta essendovi piuttosto l’esigenza di creare un c.d. “mercato della crisi”, ovvero l’incentivo alla diffusione di operatori specializzati nel sostegno alla liquidità per le imprese in crisi ed in allerta.
Riteniamo che questo possa avvenire in due modi. Il primo è quello di sviluppare piattaforme informatiche che facilitino la cessione di crediti commerciali incagliati. Una delle risorse finanziarie che una impresa in crisi potrebbe mettere in campo è proprio quella della cessione in tutto o in parte dei propri crediti nei confronti di clienti e PA. In questo, il Comitato Colao dà un segnale positivo di interesse, limitando però il sistema di cessione ai soli crediti nei confronti della PA e raccomandando un codice di comportamento per le grandi imprese per il pagamento sollecito dei fornitori. E’ un primo passo, ma occorre fare di più. Se infatti si crea il mercato della crisi questo determinerà inevitabilmente una spinta di accelerazione sul mondo della giustizia civile, così come è avvenuto a cascata per il mercato degli NPL e con l’ esigenza dei fondi di recuperare celermente i crediti acquistati dalle banche.
Nella nostra prospettiva i crediti acquistati sono quelli in capo alle imprese che hanno bisogno di liquidità e l’esigenza di recupero rapido da parte dei fondi acquirenti potrà attivare una spinta virtuosa anche sulla giustizia civile.
Il secondo potrebbe essere quello di intervenire sul concetto normativo di insolvenza (ovvero l’incapacità di adempiere regolarmente alle proprie obbligazioni), meglio coordinandolo con il sistema di allerta. Sappiamo bene di evidenziare un punto delicato della disciplina della crisi, tuttavia il sostegno al settore delle PMI potrebbe essere vanificato se prendesse piede l’idea che il fallimento (che si chiamerà liquidazione giudiziale) debba essere aperto non solo quando l’insolvenza è attuale, ma anche quando è prospettica, ovvero ravvisabile in un arco di sei/dodici mesi. Riteniamo che questo avrebbe un impatto negativo sul settore più debole del nostro Paese, andando a trasformare il sistema di allerta in un acceleratore del fallimento. Non solo, ma non ci sarebbe neppure il tempo di verificare il sostegno di liquidità a tessuti produttivi ampiamente diffusi sul territorio, che già di per sé risentono della restrizione del credito per la riduzione di un sistema bancario di prossimità.
Bisognerebbe dunque limitare la rilevanza della c.d. insolvenza prospettica ai doveri gestori degli amministratori i quali, in frangenti del genere, dovranno attivarsi per predisporre gli adeguati interventi o per accedere ad una procedura di risanamento o di ristrutturazione quando si è ancora in tempo. L’insolvenza prospettica dovrebbe quindi assumere rilevanza sotto il profilo dell’apprezzamento della diligenza professionale degli amministratori sul piano gestionale, più che come anticipazione della dichiarazione di fallimento che, invece, dovrebbe continuare a richiedere
una insolvenza attuale soprattutto per le PMI.
Certo non vi sono ricette sicure nei vortici dei tempi attuali. Dobbiamo però condividere un metodo di analisi e di indagine dei problemi – continuamente mutevoli – fatto di dialogo e confronto, tenendo presente un sistema valoriale di riferimento che ci aiuti a ricordare che i  fenomeni economici coinvolgono persone più che individui, e guardando alle crisi attuali con un occhio di curiosità che ne sappia cogliere “la forza primordiale”, come Galbraith vedeva nella grande depressione.

Vincenzo De Sensi – Università LUISS

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