Non possono esistere formazione superiore e ricerca di qualità senza autonomia dei professori e dei ricercatori.
Questo semplice concetto, ben radicato nei sistemi universitari e della ricerca dei paesi anglosassoni, era ben chiaro ai nostri Padri costituenti che fissarono all’articolo 33, insieme alla libertà di ricerca e di insegnamento, il diritto per le istituzioni di alta cultura, università ed accademie, di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato.
Ci vollero più di 40 anni per dare concretezza al dettato costituzionale con la legge 9 maggio 1989, n. 168, del Ministro Antonio Ruberti, che sotto il titolo II disciplinava finalmente l’autonomia delle Università e degli enti di ricerca.
La legge fu accolta male, con le proteste dei movimenti studenteschi, e fu poi attuata in modo parziale e insufficiente. Purtroppo, ci furono anche pessimi casi di applicazione – pochi per la verità – che, per lo più in ambito accademico, interpretarono maldestramente l’autonomia, confondendola con la deresponsabilizzazione.
Come sciaguratamente spesso accade nel nostro Paese, invece di correggere poche e isolate distorsioni, si pensò di riformare l’intero sistema per limitare l’autonomia di tutti attraverso un’ipertrofica e puntigliosa regolamentazione.
La legge 30 dicembre 2010, n. 240 contiene tuttavia al suo interno lo strumento per il ritorno alla normalità con l’introduzione del concetto di “autonomia responsabile”: all’articolo 1, comma 2, essa infatti prevede “che le università che hanno conseguito la stabilità e sostenibilità del bilancio, nonché risultati di elevato livello nel campo della didattica e della ricerca, possono sperimentare propri modelli funzionali e organizzativi, ivi comprese modalità di composizione e costituzione degli organi di governo e forme sostenibili di organizzazione della didattica e della ricerca su base policentrica, diverse da quelle [ordinarie] indicate nell’ articolo 2”.
Il comma rimanda a un decreto ministeriale di natura non regolamentare per definire “i criteri per l’ammissione alla sperimentazione e le modalità di verifica periodica dei risultati conseguiti”. Inutile dire che tale provvedimento, a distanza di dieci anni dalla promulgazione della legge, non è mai arrivato.
Probabilmente il mancato avvio della sperimentazione è stato causato, almeno in parte, dai timori del mondo accademico e delle sue rappresentanze relativi alla possibile istituzionalizzazione di una sorta di “autonomia differenziata”, con atenei di serie A e di serie B certificati dagli accordi di programma ministeriali.
Eppure, la norma meriterebbe di trovare applicazione. Un tentativo concreto venne fatto dal passato governo giallo-verde. La sua caduta impedì di proseguire un percorso che avrebbe portato una forte iniezione di autonomia all’interno del sistema universitario italiano.
Intanto bisogna fugare il sospetto che l’ammissione alla sperimentazione debba essere riservata agli atenei “eccellenti”. Se così fosse, la prescrizione sarebbe senza dubbio sbagliata: chi è eccellente probabilmente si è già guadagnato sul campo la sua autonomia, perché, come ho premesso, non può esistere formazione superiore senza ricerca di qualità. E infatti all’articolo 1 comma 2 della legge 30 dicembre 2010, n. 240, non si parla affatto di “eccellenza”, bensì di “di elevato livello nel campo della didattica e della ricerca”, oltreché di “stabilità e sostenibilità del bilancio”.
Tali previsioni non ostano alla possibilità di emanare un decreto attuativo con pochi criteri, semplici, comprensibili e facilmente verificabili, che consentano alla stragrande maggioranza degli atenei di poter usufruire dello strumento degli accordi di programma per esercitare in modo responsabile l’autonomia.
Ne resterebbero fuori solo quelli – e sono davvero pochissimi – che fino ad oggi non hanno dimostrato di saper coniugare in modo adeguato l’autonomia con la responsabilità.
Fra i modelli organizzativi e funzionali da adottare nell’ambito degli accordi di programma ministeriali andrebbe ricompresa la più vasta gamma di semplificazioni, riguardanti governo, organizzazione, reclutamento, progressioni di carriera, trasferimenti, programmazione del personale, procedure amministrative, didattica, ricerca e terza missione.
Ribadisco ancora una volta che non possono esistere formazione superiore e ricerca di qualità senza consentire agli atenei di essere liberi di scegliere i propri docenti e ricercatori, stabilire in modo autonomo i propri programmi di studio, definire in modo indipendente le proprie strategie e i propri investimenti, organizzarsi al proprio interno in modo efficace.
Ciò detto, è positivo che il Governo abbia rilanciato il tema della autonomia degli atenei nel decreto “Semplificazioni”. Desta solo qualche perplessità il fatto che, nella bozza di decreto-legge varato in questi giorni dal Consiglio dei Ministri con la formula “salvo intese”, sia presente all’articolo 14-ter la proposta di sopprimere all’articolo 1, comma 2, della legge 30 dicembre 2010, n. 240, le parole: “che hanno conseguito la stabilità e sostenibilità del bilancio”.
Speriamo ora che dalle parole si passi ai fatti.
12 luglio 2020
Nicola Casagli – Professore ordinario di Geologia applicata, Università di Firenze