Nel 1215 i baroni ribelli alla autorità dell’odiato re di Inghilterra Giovanni “senza terra”, lo costrinsero alla sottoscrizione della Magna Charta Libertatum, vero atto di nascita della democrazia parlamentare europea.
La Carta introduce nel rapporto tra la società civile dell’epoca e il potere costituito rilevantissime innovazioni di principio, anche se è evidente che la dialettica autorità/libertà, in quel momento storico, ancora si esercita tra le sole classi che godono dello stato di cittadinanza e non di sudditanza, cioè il clero e i nobili, mentre solo marginalmente riguarda la classe popolare, che pure è toccata indirettamente dalla parte libertaria della Charta.
La prima tra le affermazioni di principio contenute nella Charta, dal 1215 fondanti la nostra democrazia europea ed occidentale, è il riconoscimento del diritto dei baroni, vassalli e del clero, come detto gli unici componenti dotati di diritti nella società di allora, ad approvare preventivamente la imposizione fiscale e a condividere la scelte circa l’allocazione delle risorse conseguenti, oltre a vigilare successivamente sulla reale utilizzazione da parte del Re dei fondi così come destinati.
Nella Charta l’incombenza è affidata a un organismo collegiale, chiamato Consiglio, costituito dagli arcivescovi, abati, conti e dai maggiori baroni, e che è considerato il Primo Parlamento europeo con caratteristiche moderne.
Esso, infatti, è il primo Parlamento nella esperienza occidentale, cui è affidato sin dalla sua costituzione nel 1215 il compito di codecidere, controllare, vigilare sugli aspetti essenziali nella gestione dello Stato, cioè l’allocazione e l’uso delle risorse e dunque la garanzia delle libertà fondamentali.
E’ con esso, quindi, che nasce il modello della democrazia parlamentare con il conseguente riconoscimento dei diritti e delle libertà civili. Infatti, conseguentemente ai poteri parlamentari sulle risorse, la Charta introduce garanzie circa le libertà personale dei vassalli e dei cittadini, secondo un percorso logico e filosofico che costituisce ormai un fondamento del pensiero occidentale, vale a dire che la libertà matura ed è fruibile solo ove vi sia, contestualmente, la libertà economica, cioè il diritto di non essere oppressi economicamente e di partecipare, sia pure attraverso rappresentanti, alle decisioni finanziarie dello Stato.
Secondo l’assioma liberale per cui l’uomo espropriato dei frutti del suo lavoro e del godimento dei suoi diritti patrimoniali non è un uomo libero, ma uno schiavo.
Abbiamo in nuce il principio poi esplicitato nella Costituzione americana secondo cui no taxation without rappresentation, e il nucleo del futuro bill of rights.
La ragione d’essere di una democrazia parlamentare, e dunque la sua stessa essenza, riposa esattamente nella interazione inevitabile tra potere impositivo e facoltà di spesa dello Stato, da un lato, e libertà e diritti fondamentali, dall’altro.
La stessa configurazione dello Stato moderno come erogatore di servizi, dalla giustizia alla difesa, e come garante del welfare state nell’ottica della economia sociale di mercato, si basa sulla potestà decisoria e di controllo del Parlamento sulle decisioni strategiche in materia di finanza pubblica.
Sottrarre questo compito al Parlamento in una democrazia occidentale significa attentare all’anima stessa della democrazia, perché conduce a conseguenze autoritarie anche sul piano dei diritti civili.
Questi fondamenti del pensiero politico europeo costituiscono ormai parte delle stesse costituzioni occidentali, sia formali sia materiali, e segnano la differenza tra quella che noi consideriamo una democrazia matura da una parte e una democrazia autoritaria o una dittatura dall’altra.
Per venire all’oggi e al qui ed ora, ci troviamo dinanzi ad una violazione grave di questo principio fondante, nella pretesa del governo attuale di non condividere con il Parlamento le scelte strategiche riguardo alla utilizzazione dei rilevanti finanziamenti, a fondo perduto o a credito, provenienti dalla UE.
Egualmente inquietante sarebbe ripetere la esperienza inutile e anticostituzionale delle task force, commissioni, tavoli etc. di “esperti”, già fortemente criticata da Lettera 150, cui demandare decisioni che spettano solo al Parlamento.
Nella Costituzione materiale e formale è inscritto il medesimo principio proveniente dalla Charta, vale a dire una iniziale suddivisione tra le funzioni di indirizzo politico strategico e quelle di mera amministrazione/esecuzione, cioè di uso concreto delle risorse allocate.
Il primo di pertinenza del Parlamento, come espressione, nelle sue componenti di maggioranza e minoranza, in dialettica tra loro, dell’intera Nazione, il secondo di pertinenza del Governo, responsabile della iniziale proposta strategica, ma poi esecutore della volontà parlamentare quale che sia.
Le funzioni di “indirizzo” (politico, economico) e di “controllo” sono unanimemente considerate di esclusiva pertinenza del Parlamento e non sono mai delegabili, neppure nelle situazioni di emergenza. La massima espressione di atto normativo emergenziale, cioè il decreto legge, è infatti assoggettato sia al controllo preventivo di legittimità (circa la sussistenza dei presupposti costituzionalmente necessari) sia al controllo successivo, nella forma della conversione o non conversione in legge.
E’ dunque profondamente antidemocratica la posizione di chi sembra ritenere che al Governo spetti la gestione in solitario delle risorse economiche in quanto soggetto amministratore della cosa pubblica, con una visione che si avvicina più all’amministratore di condominio che ad un Governo democratico. È una visione tendenzialmente autoritaria che riduce la gestione della finanza pubblica ad una sorta di accaparramento di risorse di cui si possa poi disporre a piacimento.
Non è questa, appunto, la visione costituzionale, nella quale giustamente la fase dell’amministrare, cioè del fare, è riservata al Governo, ma la fase del decidere le allocazioni fondamentali, è riservata ai rappresentanti dell’intera collettività nel Parlamento. Se cosi non fosse non avrebbe senso alcuno neppure la legge di bilancio, che è appunto legge perché contiene, in maniera condivisa, la disposizione strategica, cogente per tutti i soggetti dell’ordinamento, delle risorse, affidandone al Governo la gestione.
Si chiama divisione dei poteri in una forma di stato parlamentare.
Desta quindi preoccupazione per la tenuta democratica del nostro sistema, l’intenzione del Governo di non sottoporre alla elaborazione e poi alla decisione parlamentari l’allocazione generale delle rilevanti risorse europee. Soprattutto considerando due aspetti contingenti.
Il primo, che l’ammontare delle risorse costituisce un patrimonio ingentissimo, pari a numerose leggi di stabilità, in grado di influire profondamente in futuro e a lungo sugli assetti economici, e quindi democratici, di questa Nazione.
Il secondo, che tutto ciò avviene con la copertura di una situazione di emergenza prorogata in maniera illegittima e pretestuosa, perché ad oggi senza una situazione di gravissima pandemia in atto, che di fatto esclude dal controllo del Parlamento anche la fase esecutiva e prettamente amministrativa.
Di fatto si crea una oligarchia economico amministrativa che ha a disposizione risorse come mai nella storia d’Italia e probabilmente in futuro.
Anziché creare nuove task force o commissioni di studio, riteniamo che il Parlamento nelle due sue componenti, utilizzando modelli bicamerali o unicamerali secondo la sua volontà, sia perfettamente in grado di elaborare e discutere e poi codecidere le linee strategiche fondamentali della allocazione delle risorse, anche avvalendosi, secondo i regolamenti parlamentari e senza la creazione di organismi superflui, della consulenza personale di esperti italiani o stranieri di indiscussa competenza.
Data la eccezionalità dello stanziamento proveniente, fra l’altro, dall’Europa, la sua straordinarietà, legata ad una emergenza sanitaria, considerato l’ammontare, tale da incidere profondamente sulla società e sulla economia italiane, riteniamo infine che debba essere necessaria una codecisione politica che metta maggioranza e opposizione nelle condizioni di collaborare per l’interesse superiore della nazione.
Anna Poggi – professore ordinario di Diritto costituzionale, Università di Torino
Giuseppe Valditara – professore ordinario Diritto romano, Università di Torino
Claudio Zucchelli – già Presidente di sezione Consiglio di Stato, già Direttore Dagl, Presidenza del Consiglio