di Lorenzo Franchini
Professore associato di Diritto romano, Università Europea di Roma
Su una causa che dovrebbe tutti accomunare siamo reduci da un’epoca di gravi contrapposizioni: è innegabile che Donald Trump e con lui altri leaders ritenuti ‘sovranisti’ non abbiano perso l’occasione di dileggiare il monito universalmente lanciato da Greta Thunberg e dai suoi attivisti. È notizia di questi giorni che un importante movimento politico italiano abbia fortemente voluto e poi salutato come un proprio successo l’istituzione di un Ministero detto «della transizione ecologica». Comunque sia, la realtà è che il problema della tutela dell’ambiente presenta ormai caratteri di tale impellenza da risultare senz’altro come uno dei più cruciali del nostro tempo: si tratta di salvare la terra dal surriscaldamento globale. Eppure, il modo in cui la questione ecologica è stata concretamente affrontata spesso non è risultato a tutti gradito, in quanto percepito come non lucido e sereno, non immune da utopie ed eccessi ideologici, o addirittura da tentativi di strumentalizzazione diretti al raggiungimento di altri scopi. Al di là dei proclami e delle enunciazioni di principio, quella per un ambiente più sano ci è talora innegabilmente parsa, all’atto pratico, come una battaglia di parte, e ha finito per suscitare, per contrappasso all’entusiasmo altrui, l’indifferenza ed anzi quasi l’ostilità di molti. È allora indispensabile dimostrare che non esistono orientamenti politico-culturali che possano, per ragioni ad essi stessi intrinseche, non riconoscere come proprie le istanze della tutela dell’ambiente. Quel che finora è mancato è proprio una riflessione approfondita su questo punto, tale da costringere ogni cultura politica a scoprirsi, per natura o per necessità, ‘ecologista’.
Ora, non vi è dubbio che la cultura ambientalista si sia affermata soprattutto nell’ambito di quegli schieramenti che, dal punto di vista politico, possono genericamente dirsi progressisti o di sinistra. In quest’area infatti si collocano, oltre a partiti che espressamente si denominano ‘Verdi’, tutta una serie di movimenti e associazioni che si prefiggono la difesa dell’ambiente come scopo primario, o che comunque riservano alla questione ecologica un’attenzione tutta particolare. È anche grazie ai volontari operanti nell’ambito di queste organizzazioni che, da alcuni decenni a questa parte, il problema dei danni, provocati di volta in volta all’ambiente da uno sviluppo economico incontrollato, si è imposto all’attenzione pubblica mondiale. Ciò perché in tutta la cultura di sinistra sembrano aver perduto peso, anche per ragioni storiche, quelle tendenze di tipo sovietico-operaistico, volte a battere il capitalismo industriale sul suo stesso terreno, che a lungo avevano caratterizzato i partiti comunisti di tipo tradizionale, e sembra essersi invece diffusa la convinzione che quello ad un ambiente più salubre e pulito è comunque uno dei grandi diritti sociali. Però, un programma politico-culturale siffatto, che sulla carta si prefigge di apportare correttivi al modo in cui si attua lo sviluppo industriale, non è stato da tutti universalmente accettato, ed anzi da alcuni considerato come l’espressione di una ideologia di parte, in cui non riconoscersi: ciò, anche quando non è degenerato in polemiche manifestamente datate e strumentali contro l’economia di mercato e le sue leggi. Vediamo allora di capire i motivi di tutto ciò. Il movimento ecologista di sinistra nasce e si consolida in età relativamente recente, sull’onda della protesta giovanile degli anni Sessanta e Settanta, con la quale ci si proponeva di destrutturare i tradizionali assetti, prima ancora che della politica e del potere, della civiltà e del costume. Molto incise in quella temperie esagitata l’intento libertario di demolire il primato della cultura cristiano-borghese, coi suoi vincoli e i suoi perbenismi, per immettere nelle società occidentali germi di sensibilità nuove, spesso importate da Paesi lontani, quali in particolare quelli orientali, dove la maggiore attitudine alla vita contemplativa, la presunta assenza di ideologie aggressive ed apprensive, il mancato o ritardato decollo di un’economia industriale testimoniavano di un rapporto assai più armonioso e sereno dell’uomo col mondo circostante. Lo stesso rapido formarsi di comunità giovanili di tipo collettivistico, dedite alla vita agreste, fu sintomo del desiderio, diffuso in quel periodo, di fuggire dalle società urbane, con le loro alienazioni e le loro artificiose gerarchizzazioni, per rifugiarsi in una sorta di stato di natura, che molto richiama – seppur qui reinterpretato in chiave esistenziale di massa, anziché teorizzato da pochi “philosophes” – il mito del ‘buon selvaggio’ di settecentesca memoria. La natura, alla quale tornare con amore, veniva percepita idealisticamente ed utopicamente come la culla di tutte le uguaglianze, mentre le istituzioni della società tradizionale erano considerate oppressive impalcature (si rifletta sul fatto che lo stesso Norberto Bobbio, nel suo scritto Destra e sinistra, valuta l’idea di uno stato di natura, in cui tutti gli uomini sono tra loro uguali, come quella forse principalmente fondativa della ideologia di sinistra). Ora, benché oggi quei fenomeni siano in gran parte cessati, e la carica rivoluzionaria che li caratterizzava si sia stemperata in una più rassicurante e diffusa tendenza all’evasione “new age”, non si può tuttavia negare che in molte battaglie degli ecologisti riecheggiano ancora istanze diverse, le quali possono essere collegate alla questione ambientale solo in forza di operazioni fortemente ideologizzanti, che come tali possono anche non riscuotere affatto simpatie ed adesioni. Non si vede perché mai, al giorno d’oggi, debba riconoscersi il monopolio nella lotta per un ambiente più sano a partiti e movimenti che poi inclinano, come sappiamo, a minare il modello di famiglia tradizionale, monogamica ed eterosessuale, ed invece a solidarizzare, ad esempio, con l’esperienza dei centri sociali, quasi che la famiglia avesse un carattere sovrastrutturale ed i centri sociali naturale. È insomma importante che cause buone, come certamente è, anche a sinistra, quella per l’ecologia, siano promosse con intelligenza e spirito di discernimento, spogliate dell’apparato rappresentato da utopie talora anche un po’ bislacche, al fine di evitare pericolose crisi di rigetto da parte di coloro ai quali legittimamente sta sì a cuore la difesa dell’ambiente, ma niente affatto, magari, tutto il resto.
Lo scoglio più difficile da superare sembra essere, per la verità, ancora oggi quello propriamente rappresentato da una non-ideologia, ossia dalla cultura del profitto che, laica e pragmatica, muove la civiltà industriale e la spinge ad estendersi in ogni parte del pianeta (è un aspetto della cosiddetta globalizzazione), con effetti devastanti sugli equilibri naturali. Ora, qui il problema va posto principalmente in maniera tale da accogliere il punto di vista che è proprio delle società industrializzate, evolute ed attente alla propria autoaffermazione, ossia in termini rigorosamente e coerentemente pratici: si tratta di impedire che l’ambiente in cui si svolge la vita di tutti noi – presupposto indispensabile per il conseguimento di ogni ulteriore utilità individuale e non, per la successiva godibilità di ogni arricchimento – divenga un luogo inospitale ed ostile. Il fatto che un rischio del genere possa ad oggi, invece, essere senz’altro ipotizzato rivela uno dei grandi limiti che, almeno secondo chi scrive, caratterizzano purtroppo la mentalità dell’uomo moderno, ossia la perdita della visione complessiva delle cose, la tendenza efficientistica ad abbassare lo sguardo per perfezionare il mezzo che è nelle sue mani, senza tenere più d’occhio la direzione di marcia. Si faccia attenzione a questo dato, perché qui la deficienza (per esprimersi in termini kantiani) non si rileva solo sul piano della ragione morale o pratica, ma anche e soprattutto sul piano della ragione teoretica, in quanto una inclinazione siffatta è aporetica, non regge dal punto di vista logico. Non si può teorizzare l’utilità come valore e poi adottare nel perseguimento di essa comportamenti che la contraddicono: il pensare e l’agire dell’uomo occidentale ne risultano umiliati proprio in quell’ambito dell’esattezza della sua tenuta razionale, che da Aristotele in poi ne hanno inesorabilmente segnato, invece, l’ascesa ed infine il prevalere sugli altri popoli del mondo. Questa spaventosa perdita di lucidità, che peraltro non si manifesta soltanto in relazione alle questioni ambientali, dipende molto a nostro avviso dall’attenuarsi della componente umanistica nella formazione delle classi dirigenti. Solo una cultura di questo tipo, infatti, infonde in chi la pratica il senso dell’interezza, della complessità dei problemi, insieme alla capacità di affrontarne e risolverne uno, senza renderlo pericolosamente avulso dal contesto rappresentato dagli altri. Solo una sensibilità siffatta produce insomma quella idoneità alla “leadership”, senza la quale grande è il rischio del procedere cieco, del produrre vorticoso, di un agire che non discerne più fra le diverse priorità perché le schiaccia. Se spesso, per la risoluzione di questioni di grande rilievo quale indubbiamente è quella ecologica, non si danno appunto condizioni favorevoli, ciò dipende dal fatto che chi si è assunto responsabilità pubbliche, o per scarsa lungimiranza propria o per l’irresistibile pressione di “lobbies” economiche esterne alla politica, finisce per adottare decisioni che sono controproducenti. Ed allora in casi come questi bisognerà prendere atto che nel nostro stesso mondo occidentale, dedito al fare e al prevenire, desideroso di rassicurarsi e di padroneggiare le cose, esistono tuttavia pericolose controtendenze, derivanti da miopie ed involuzioni del comprendere, che rischiano di indebolirlo e di minarne la possibilità di prosperare in futuro. L’adesione alla causa ecologica, come causa di tutti e non di parte, si rende quindi necessaria in ogni caso, sebbene essa appaia qui supportata da ragioni di mera opportunità e non da idee e linee di pensiero volte a considerare il rispetto della natura che ci circonda come un valore in sé.
Secondo certa critica di matrice laicista, l’origine prima dell’aggressività dell’uomo occidentale verso l’ambiente e di tutti gli inconvenienti che da ciò sono derivati sarebbe da rintracciarsi nella dottrina cristiana della creazione. Recita infatti il libro della Genesi 1,28: «Riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare, sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia sulla terra». Ora, non si può a mio avviso negare che la religiosità cristiana, contrariamente ad altre, induca ad un atteggiamento non particolarmente riverente verso la natura: ciò perché tutto il sacro, che altrove appare come diffuso in essa, viene qui unicamente riferito ad un Essere che la trascende e ne è anzi l’artefice; l’uomo stesso, che è la creatura più alta, si colloca, in termini di dignità ontologica, una spanna al di sopra di tutto quanto lo circonda (è il cosiddetto antropocentrismo cristiano, che indubbiamente spiega anche la ragione per cui proprio in Europa, e non in altre parti del mondo, si siano create le condizioni più adatte per eventi quali la rivoluzione scientifica o quella industriale). Ma occorre anche notare che dalle Scritture non è evincibile alcuna autorizzazione all’annientamento e al saccheggio: anzi, da Genesi 2,15 si ricava che la missione dell’uomo, posto da Dio nel giardino dell’Eden, è quella di coltivarlo e di custodirlo. Il mondo, pur affidato al lavoro dell’uomo che si rende così partecipe della creazione di Dio, resta proprietà di quest’ultimo; quegli ne è invece soltanto, per così dire, l’usufruttuario, che può far quindi uso delle risorse naturali, goderne i frutti, ma non abusarne, perché altrimenti sarà chiamato a risponderne (ius utendi fruendi, ma non abutendi, anche se bisogna riconoscere le difficoltà di fondare su argomenti teoricamente convincenti il criterio in base al quale si possa dire che, di volta in volta, il limite dell’abuso è stato varcato). Ecco perché il mondo cattolico odierno, assistito in ciò dal magistero della Chiesa – si legga, ovviamente, soprattutto l’enciclica Laudato si’ di Papa Francesco –, con riferimento a tutte le sue componenti, e non soltanto ad alcune, deve anch’esso riconoscere come propria la causa ecologica. D’altronde alcune degenerazioni, tali da rappresentare una pericolosa minaccia per gli equilibri ambientali, appaiono storicamente riferibili, come già dicevo sopra, più a quella mentalità secolarizzante, che dalla fine del XVIII secolo si è fatta interprete non sempre avveduta della nuova civiltà della tecnologia e della scienza, che non alla tradizione cristiana precedente, nell’ambito della quale erano anzi fiorite forme di spiritualità – di tipo eremitico o monastico – dedite alla contemplazione della natura come teofania. Di queste ultime la più rilevante è naturalmente il francescanesimo ed anzi il “Cantico delle creature” del santo Francesco può essere considerato come una sorta di manifesto, mistico e lieto, della ecologia cristiana.