di Claudio Zucchelli, Presidente aggiunto onorario del Consiglio di Stato
L’art. 3 del d.l. 1° aprile 2021, n. 44 è recentemente intervenuto in una complessa materia riguardante la responsabilità per colpa degli operatori sanitari (medici e infermieri).
Per comprenderne il significato e la portata, è necessario un inquadramento, brevissimo della fattispecie sin dall’inizio, cioè dal codice penale.
L’art. 43 del codice penale definisce il reato colposo. Esso si ha quando il così detto “evento”, cioè l’omicidio, le lesioni etc., pur non voluto dall’agente, si verifica a causa di: negligenza o imprudenza o imperizia (colpa generica), oppure per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline o regole dell’arte, buone pratiche etc (colpa specifica).
Sommariamente si può dire che la violazione di regole etc., determina sempre il reato colposo al verificarsi dell’evento, mentre l’avere rispettato tutte le norme, non esclude il reato quando vi sia l’elemento psicologico e il comportamento caratterizzati da negligenza, imprudenza o imperizia.
La particolare delicatezza della professione sanitaria ha sempre spinto verso un trattamento diverso della colpa dell’operatore sanitario, muovendosi nella delicata terra di mezzo tra la immunità totale e assoluta (improponibile per molteplici profili costituzionali) e il trattamento del tutto identico a quello di un normale reato colposo, incompatibile con la stessa complicatezza e incertezza dell’arte medica.
Nella lunga storia di questa problematica, con la legge così detta Gelli-Bianco del 8 marzo 2017, n., 24 si ha una svolta.
La legge introduce un nuovo articolo del codice penale, il 590 sexies, il quale dispone che nei reati di omicidio e lesioni colpose, se commessi nell’esercizio della professione sanitaria, qualora l’evento si sia verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto.
La novità sta nel fatto che, relativamente alla sola indagine sulla imperizia, questa è radicalmente esclusa se il medico ha seguito le regole professionali ufficialmente stabilite.
Si tratta quindi di una rivoluzione rispetto all’art. 43 c.p., almeno limitatamente alla accusa di imperizia.
I limiti di questa norma sono due: innanzi tutto si applica alla sola imperizia. Ciò vuol dire che anche se il medico ha seguito le regole della professione, può comunque essere indagato e condannato per negligenza o imprudenza. In secondo luogo non impedisce a priori che si apra un procedimento penale e che magari si arrivi anche al dibattimento, perché il pubblico ministero vorrà indagare se sono state effettivamente seguite le regole, se erano quelle adeguate al caso reale, se, non ostante ciò, il medico non sia stato ugualmente negligente o imprudente etc.
Per questo motivo, in occasione della pandemia, si è alzata alta la voce di tutti gli operatori sanitari per ottenere quello che è stato chiamato lo scudo penale.
E’ stata così introdotta una nuova norma dall’art. 3 del d-l. n. 44 del 2021, la quale dispone che in caso di omicidio o lesioni a causa della somministrazione di un vaccino per il Covid, nel corso della campagna vaccinale dovuta all’emergenza attuale, la punibilità è esclusa quando l’uso del vaccino è conforme alle indicazioni contenute nel provvedimento di autorizzazione all’immissione in commercio emesso dall’AIFA e alle circolari pubblicate sul sito istituzionale del Ministero della salute relative alle attività di vaccinazione.
La norma introduce qualche novità, ma non è soddisfacente.
Vediamo il lato positivo. Per la prima volta il rispetto delle regole professionali rese pubbliche dal ministero e delle regole di uso imposte dall’AIFA in sede di autorizzazione del vaccino, escludono completamente la responsabilità anche nei casi di negligenza o imprudenza, oltre che di imperizia. In altri termini basta avere seguito le regole e l’operatore sanitario è tranquillo.
Il lato negativo è, prima di tutto, che la norma è sostanzialmente a tempo. Finita la campagna vaccinale e lo stato di emergenza dovrebbero cessare gli effetti. Soprattutto, però, essa non impedisce minimamente l’avvio di una indagine, la notificazione dell’avviso di garanzia e magari il rinvio a giudizio, non cogliendo così nel segno.
Infatti la stessa relazione al d.l. chiarisce che lo scopo della norma è tranquillizzare gli operatori sanitari circa l’espletamento delle loro funzioni. Che non saranno, cioè, messi nel tritacarne giudiziaria, mediatico con risvolti anche economici che usualmente, soprattutto nei confronti degli innocenti, è peggiore della condanna. Ciò, dice la relazione, non per un favore agli operatori, ma perché è interesse pubblico che questi non si tirino indietro dai loro doveri e li adempiano con serenità d’animo, per la buona riuscita della vaccinazione stessa.
L’inadeguatezza della norma deriva dalla constatazione che il pubblico ministero, anche alla luce di essa, potrà comunque ritenere di non archiviare e di iniziare l’azione penale (con il pretesto della obbligatorietà di essa) per accertare se realmente sono state seguite le circolari, le prescrizioni AIFA etc., se erano quelle corrette per il caso di specie, se siano stati commessi altri fatti, che pur non essendo una violazione delle regole, hanno contribuito all’evento, se, ad esempio, dinanzi ad una relazione anafilattica al vaccino, l’operatore abbia reagito correttamente etc.
Non solo, il P.M. potrà anche ipotizzare, e quindi indagare e sindacare, se effettivamente i provvedimenti dell’AIFA e le circolari ministeriali prescrivevano ciò che l’operatore ha fatto, oppure se questi non le ha capite correttamente, o le ha fraintese e quindi, sostanzialmente le ha involontariamente disattese etc. etc. Mille sono i cavilli interpretativi che il c.d. obbligo dell’azione penale rafforza verso una inevitabile conclusione: l’avviso di garanzia, al minimo.
Veniamo alla soluzione.
Ad avviso di chi scrive non vi è modo di risolvere la questione se si agisce sulla norma penale sostanziale. Come si è visto nel caso della legittima difesa, la fantasia persecutoria dei giudici penali è tale che qualunque cambiamento della norma, sotto lo scudo della libera interpretazione giuridica, è stata distorta rispetto alla vera volontà del legislatore.
Sarà meglio, quindi, spostarsi dal piano sostanziale a quello processuale.
In primo luogo incidendo sull’art. 335 c.p.p., il quale disciplina la iscrizione nel registro degli indagati. Chiarendo più esplicitamente di quanto non dica oggi questa norma, che non la semplice notizia di reato autorizza alla iscrizione di una persona, astrattamente e teoricamente possibile colpevole, ma solo la presenza di gravi indizi già accertati che indichino chiaramente che esiste un reato e chi lo ha commesso, impedendo così la archiviazione. Il che, per la verità, si comprende già dagli attuali art. 50 e 405 c.p.p. e dalla giurisprudenza, ma repetita juvant.
In secondo luogo occorre prendere atto che in questa materia, alla fin fine, la decisione è assunta principalmente dal CTU nel corso del giudizio, il quale, da medico, accerta quale fosse il corretto comportamento che si sarebbe dovuto tenere.
Sarebbe quindi il caso che ciò avvenisse come una sorta di accertamento preventivo. La proposta è quindi di istituire un filtro per l’azione penale, costituito dalla preventiva analisi tecnica dei fatti, da parte di un gran giurì nominato con le dovute garanzie di imparzialità, autonomia e competenza, dagli Ordini professionali, la cui decisione negativa, elimini in radice lo stesso interesse dello Stato a procedere nell’azione penale e paralizzi l’esercizio dell’azione penale.
Ciò non impinge sulla obbligatorietà della azione penale la quale, come è noto, non gode di una protezione costituzionale assoluta. Infatti l’art. 112 della costituzione, che dispone che il PM ha l’obbligo di esercitare l’azione penale, rimette alla legge la qualificazione del momento e dei presupposti di questo obbligo. E l’art. 50 dispone che Il pubblico ministero esercita (obbligatoriamente) l’azione penale quando non sussistono i presupposti per la richiesta di archiviazione. Così come l’art. 405 c.p.p. stabilisce che Il pubblico ministero, esercita l’azione penale, formulando l’imputazione quando non deve richiedere l’archiviazione
In sostanza l’obbligatorietà sussiste solo quando la “notizia di reato” è fondata e, in generale, quando gli elementi raccolti durante la fase investigativa sono sufficienti a sostenere l’accusa in giudizio. Perché tale obbligo diventi perentorio ed ineludibile, per il pubblico ministero, è necessario che si verifichi una precisa condizione, stabilita dall’articolo 50 del codice di procedura penale ovvero che non sussistano i presupposti per chiedere l’archiviazione. Ed infatti, l’archiviazione deve essere chiesta quando la notizia di reato è infondata in fatto. In questo caso l’infondatezza in fatto è accertata dal Gran Giurì che appura che l’azione dell’operatore sia conforme alle regole e prescrizioni.
In effetti, ciò dovrebbe accadere per qualsiasi reato. Il P.M. dovrebbe chiedere l’archiviazione proprio quando si rende conto che, non ostante le apparenze e magari le richieste delle parti civili, un rimprovero penale non può essere addebitato all’autore. Questa consapevolezza, in questa materia così delicata e particolare, non può essere raggiunta da un laureato in giurisprudenza sia pure di esperienza, ma richiede un giudizio tecnico specifico e approfondito, che infatti normalmente avviene nel corso del giudizio con la nomina del CTU.
Il giudizio preventivo del Gran Giurì, quindi, non è incompatibile con la obbligatorietà dell’azione penale perché il presupposto fattuale dell’azione può essere accertato da altro soggetto specializzato e previsto dalla legge. Del resto nel nostro ordinamento molti sono i casi in cui è necessario un fatto esterno indipendente dal P. M. per esercitare l’azione penale: la querela, la richiesta, l’autorizzazione a procedere etc.
A chiusura una ulteriore proposta. A chi scrive sembrerebbe anche giusto che la difesa e assistenza degli operatori sanitari fin dalla fase del gran giurì sia assunta ex officio dalla Avvocatura dello Stato. In effetti gli operatori sanitari, limitatamente a questa fattispecie relativa alla campagna vaccinale, sono incaricati di un pubblico servizio dal quale non si possono sottrarre e operano per conto dello Stato, il quale infatti sarà poi comunque chiamato a risponderne civilmente, salva la rivalsa. E’ quindi coerente, oltre che giusto, che il sanitario incolpevole sia salvato da quel tritacarne giudiziario e da quel disastro economico cui si accennava, mercé l’ausilio anche economico dello Stato per conto del quale ha agito, senza godere della libertà di esimersene.