Massimiliano Atelli, Procuratore regionale della Corte dei Conti per la Valle d’Aosta, Pres. della commissione VIA
Già prima della epocale sfida del Recovery plan, il tema della decisione e dell’azione pubblica, e quello, connesso, dell’elevazione del loro livello, si poneva con forza. Ora che il tornante della Storia è proprio quello del Recovery, quel tema si pone con una forza speciale. Come e più di prima, si tratterà di prendere buone decisioni, di fare cose concrete e utili, e di fare presto (senza tuttavia fare frettolosamente). Ma amministrare la cosa pubblica è – oggi – sfida difficile.
Amministrare significa – sempre – scegliere fra più soluzioni possibili fra loro alternative, impiegando mezzi e risorse, in sede attuativa, in funzione del raggiungimento di un risultato preventivato.
Scegliere è difficile, sovente impopolare (perché sempre qualcuno ne resta scontento), ma non scegliere è peggio. Non è acquisizione del nostro tempo, ma saggezza antica: “Non conosco una via infallibile per il successo, ma una per l’insuccesso sicuro: voler accontentare tutti” (la frase è attribuita a Platone).
Peggio di non scegliere c’è soltanto non voler scegliere. Va ribadito, ancora una volta, che la miglior spesa pubblica non è quella che non si fa. L’austerity come dogma, in crisi profonda già prima dell’avvento del Covid-19, vive oggi una curiosa stagione.
Perché c’è ancora chi, nonostante la pandemia, continua a pensare (e a dire, seppure oggi a bassavoce) che la cosa migliore sia non spendere. Sennonché, perseverare su questa linea, adesso, darebbe la prova di non aver compreso nulla della lezione della Storia. Non dobbiamo avere paura di spendere, ma dobbiamo tirar fuori la capacità e il coraggio di spendere bene, per rimettere in moto un ciclo economico duramente colpito come mai dal secondo dopoguerra, e scongiurare fra l’altro una epocale desertificazione del capitale umano.
Dobbiamo spendere bene facendo guidare le relative scelte pubbliche dai migliori paradigmi: buon senso, misura e prudenza, soppesando attentamente le alternative (compresa la c.d. “alternativa zero”) e le conseguenze, dando il massimo in fase ideativa e tenendo alta la guardia in quella esecutiva. La più banale, e allo stesso tempo la più formidabile, a ben vedere, delle rivoluzioni (in definitiva, e semplicemente, “quel che bisogna valutare è se un progetto è utile o no”: così, M. Draghi).
“Buona scelta pubblica” significa tenersi alla larga da idee eccentriche, progetti improbabili e deficit di capacità tecnica e operativa in sede esecutiva, perché il cattivo uso o non uso delle risorse pubbliche, non è fenomeno meno grave – sul piano degli effetti per la comunità amministrata – della corruzione. Amministrare male è certo eticamente meno riprovevole, ma può talora fare persino più danno che commettere un reato.
Rispetto al tema nevralgico della scelta pubblica, l’azione e l’operato della Corte dei conti divengono un riferimento naturale. In questo contesto, la magistratura contabile è chiamata a mantenersi con costanza equidistante dal buonismo irresponsabile così come dal facile giustizialismo, anzitutto a tutela della parte sana, certamente maggioritaria, dei decisori pubblici (in una parola, degli onesti e capaci), così come dei cittadini, destinatari ultimi delle loro azioni e decisioni.
Dall’ideazione di Cavour sino alla giurisprudenza costituzionale degli ultimi decenni (sent. n. 371/1998) e’ stata costante l’attenzione alla responsabilità amministrativa dei decisori e degli operatori pubblici, che, se non ragionevolmente limitata, <<è suscettibile di determinare un rallentamento nell’efficacia e tempestività dell’azione amministrativa dei pubblici poteri, per effetto dello stato diffuso di preoccupazione che potrebbe ingenerare in coloro ai quali, in definitiva, è demandato l’esercizio dell’attività amministrativa>> (così, Corte costituzionale, sent. n. 355/2010).
Il tema è quello – per usare una categoria (anzitutto mediatica) ormai consolidata – della c.d. “paura della firma”. Da qui, l’antidoto, individuato direttamente da Cavour – appunto – in “un castigo in danaro“, e nel conseguente conferimento al giudice contabile del potere equitativo (“secondo le circostanze dei casi“) di “porre a carico” dei responsabili “una parte soltanto dei valori perduti“.
Questo potere, discrezionale, di calibratura e gradazione delle responsabilità individuali, affonda le sue radici nel dato, oggettivo e di comune esperienza, che nella causazione di un danno erariale hanno spesso forte incidenza eziologica anche disfunzioni o anomalie proprie del sistema amministrativo in quanto tale, destinate talora a restare, malgrado gli sforzi degli organi requirenti, non imputabili specificamente ad una o più persone. In simili situazioni, addossare ciononostante l’intero danno subito dalla PA all’amministratore o al funzionario evocato a giudizio, sarebbe evidentemente iniquo.
In nome e in funzione di questo obiettivo e’ stato enucleato e sviluppato un sistema di giustizia di tipo dedicato, fatto di un plesso giudiziario formato da magistrati con particolare conoscenza della macchina pubblica (nei suoi pregi e nei suoi difetti), chiamati ad applicare regole peculiari, più vicine all’esperienza del diritto civile che a quella del diritto penale, per compiere quella valutazione discrezionale ed equitativa, volta a stabilire quanta parte del danno complessivo subito dalla PA debba essere addossato al convenuto, e quanta invece debba restare a carico della medesima, a titolo di c.d. rischio d’impresa (Corte costituzionale, sent. n. 183/2007).
Anche questo impianto, come del resto ogni cosa, è senza dubbio perfettibile. Ma, persino in tempo di Recovery plan, piuttosto che una soltanto ci sono molte possibili soluzioni per il problema della “paura della firma”, che, a torto o a ragione, esiste e non può essere ignorato.
Il recente DL semplificazioni (n. 76/2020) è intervenuto sul punto, introducendo una moratoria sino a fine 2021 sul danno erariale da colpa grave. Una ricetta semplificatrice e drastica, che muove dall’assunto che quella paura sia, più propriamente, la paura di non riuscire a dimostrare la propria innocenza (in sostanza, di non essere assolti), all’esito del processo contabile. È una soluzione, ma non ritengo – lo dico anche da componente togato dell’organo di autogoverno della Corte dei conti – che sia “la” soluzione, e tantomeno la migliore. Personalmente, credo infatti che la paura che più spesso paralizza la firma sia, oggi come ieri, un’altra: non quella di non (riuscire a) “uscire bene” dal processo, ma quella, invece, di entrarci.
Se è così, la soluzione va cercata non nelle moratorie dell’imputabilità per colpa grave, bensì nel rafforzamento dei meccanismi di garanzia, sia introducendo soglie massime di valore per gli importi di condanna (come già accade per la responsabilità dei medici pubblici, dopo la legge n. 24/2017), sia attraverso la creazione di certezze anticipate (con più pareri, per un verso, e più controlli, per altro verso, rapidi ed efficaci) che risparmino all’azione amministrativa la zavorra, a danno del sistema Paese e delle sue necessità, di insicurezze e titubanze del decisore pubblico.
Ricette, queste, da tempo evidenti e tutte individuabili anche nel discorso del premier Draghi alla sua prima uscita pubblica, proprio in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario della Corte dei conti. E’ dunque tempo di elevare, con interventi correttivi tutto sommato di circoscritta portata, il livello delle garanzie per gli agenti pubblici non in dolo, e di offrire – con le stesse funzioni che da decenni sono intestate alla Corte dei conti dalla legge – più punti di riferimento certi per chi, nelle amministrazioni, è chiamato ogni giorno ad assumere decisioni anche gravose.