Emanuela Andreoni Fontecedro
Già ordinario di Letteratura Latina, Terza Università di Roma
Non mi riferisco ad una cultura specifica, che riguarda una disciplina, o un’area, es. cultura storica, musicale etc. ma alla cultura come valore absolutus, come si usa nell’espressione: ‘una persona di cultura’. A quale cultura ci si riferisce, in cosa consiste questa cultura intesa in toto, complessa e complessiva?
Nella nostra tradizione occidentale, si configura particolarmente come cultura umanistica, che proviene quindi da una formazione letteraria, storica, filosofica, artistica: humane litterae et artes, soprattutto in considerazione che è dalle humanae litterae che deriva la vastità del linguaggio–pensiero.
La cultura umanistica non esclude le scienze ma piuttosto riserva a chi si dedica ad esse il termine di scienziato.
Ricordiamo in maniera brevissima che il Rinascimento favorì la fusione dei saperi per i grandi: per Leonardo la ricerca anatomica del corpo umano entrava in gioco con la pittura, le indagini che riassumiamo dicendole ‘ingegneristiche’, avevano la dignità di scienza.
Ma non mancano esempi anche in altre epoche: basti pensare a Pascal, il celebre matematico, ma anche filosofo stricto sensu nella sua indagine etica e metafisica, quasi epigono di Aristotele, che nei tempi antichi, quando era più facile fondere i saperi nel loro stato nascente, si era occupato di scienze naturali come pure di etica, metafisica e politica e poetica.
Ma il mondo moderno, per l’accalcarsi dei saperi e delle ricerche ha teso sempre più a separare le scienze dell’uomo da quelle della natura: due facce della Luna.
Anzi il mondo contemporaneo ha teso sempre più al distinguo nello stesso ambito, alla specializzazione estrema dentro la stessa area d’indagine, parcellizzando la ricerca e addirittura ha teso a piegare il fine della ricerca scientifica sempre più sull’orizzonte dell’operatività delle tecniche.
Abbiamo sorvolato su secoli e millenni e evidenziato soltanto i punti salienti di un lungo cammino, per contestualizzare questo oggi in cui, aldilà e al disopra della querelle tra scienza e humanae litterae, si apre un nuovo confronto e una sfida tanto più grandiosa: l’uomo e la sua creatura, il robot.
È oggi generalmente accettato – come ripetono i ricercatori – che “Il robot supera l’uomo per rapidità, precisione ma soprattutto per affidabilità. Pensiamo ad un intervento chirurgico il robot garantirà sempre lo stesso risultato, senza tema di défalliance. Ma oggi come oggi il robot non possiede la visione d’insieme, generale, olistica del probema. L’uomo solo infatti trasforma le informazioni in una formazione atta a ‘ creare’ il nuovo. Il robot arriva a scegliere la possibilità più idonea, non crea una nuova risoluzione: il computer applica i modelli, non innova, capacità questa riservata finora all’uomo”.
Questo dato di fatto è essenziale e porta a considerare sempre più l’esigenza per lo scienziato- ricercatore (e per analogia ci riferiamo anche agli umanisti) di una preparazione di base ampia e approfondita, vorrei dire ‘dilatata’. E, per riflesso, su questa linea si dovrebbe muovere anche la programmazione, nella scuola. La cultura tout court, la scienza in particolare, necessita oggi, per essere tale nel confronto con il robot, che opera perfettamente nella specializzazione, di quella ricchezza totale del sapere che sola gli dà la forza intellettiva di ‘innovare’, come anche di reagire in modo ‘creativo’, se interviene una mutazione, un imprevedibile.
Detto questo, non è che si voglia ridurre l’impatto oggi martellante nell’Università chiamata a piegarsi sempre più alle esigenze dell’impresa che tiene giocoforza presente il solo inserimento professionale.
Ma pensiamo che un cammino non in partenza professionalizzante possa sviluppare una capacità creativa più opportuna come ponte tra teorie e prassi. Inoltre la ‘ricchezza’ di base (nelle misure di volta in volta adeguate) dovrebbe essere favorita nell’impianto universitario, così come dovrebbe filtrare come metodo di apprendimento nei licei. Dobbiamo mirare a orizzonti vasti e a inglobare suggerimenti e segnali che provengono da ambiti diversi, non altrimenti da come, – diciamo con l’antica immagine usata da Seneca, ma con intesa estensione del riferimento analogico – fanno le api, che suggono da fiore in fiore.
“Noi abitanti del globo azzurro trascorriamo le giornate in un’apparente situazione di tranquillità scandita al massimo da albe e tramonti e dal mutare delle stagioni” (Freeman Dyson, L’Universo su misura, trad it.): la quiete della solitudine e l’atarassia della non comprensione dei fenomeni. E invece la nostra cultura deve insegnarci a contestualizzarci ogni volta e perciò a comprenderci nel variegato aspetto dell’umano e della natura. La conoscenza dell’uomo deve sentirsi esaltata dalla conoscenza della natura che deve portarci oltre le nebbie dell’apparenza, deve toglierci il velo bruno dell’ignoto.
Il robot è l’ultimo strumento creato dall’uomo, dalla sua lucidità intellettiva, è il frutto smagliante dell’intelligenza umana. Ma Günther (Stern) Anders (L’uomo è antiquato, trad. it), scienziato e filosofo contemporaneo e incomparabile divulgatore, sosteneva che l’uomo teme la sua creatura con cui ingaggia una impari gara. Ma è proprio la lucidità della ragione, il valore del fine, la capacità del dubbio che dipendono dalla ricchezza della sua formazione a dare all’uomo la consapevolezza del suo ‘essere’ e dell’appartenenza della direzione degli eventi.
Anders concludeva il suo iter di pensiero, con la proposta nota che la poesia deve ispirare la tecnica, come a suggerire che lo strumento ha la sua anima nel suo creatore, ma anche che la mente di chi afferra la natura (‘che ama nascondersi’, Eraclito) deve essere forgiata al fuoco delle humanae litterae. Si assiste così a una forte esigenza, che è anche nostalgia, dell’unità dei saperi, perché in questa unità è la verità che si è frazionata negli specchi del mondo.