Tra le prime sette società più capitalizzate al mondo (con capitalizzazioni superiori al PIL Italiano), solo Tesla e la holding del petrolio dell’Arabia Saudita operano in mercati tradizionali.
Le altre sono giganti dell’economia digitale.
Sono forti economicamente e dispongono di un potere incontrollato, perché possono condizionare la vita e le scelte di miliardi di persone, attraverso il web.
La loro forza si poggia, soprattutto, sulla ricchezza costituita dalle informazioni che riguardano i nostri comportamenti, le nostre abitudini, le nostre preferenze.
In genere, acquisiscono queste informazioni gratuitamente, scambiandole con servizi di social-networking o poco di più, un po’ come gli spagnoli scambiavano con gli indios specchietti per pepite.
Le tasse, però, le pagano quasi solo nel paese in cui hanno la loro sede (nella maggior parte dei casi gli Stati Uniti) e solo sul patrimonio e sui redditi misurabili con i criteri tradizionali. In altre parole, mentre si arricchiscono sfruttando i dati degli abitanti di tutti i paesi del mondo e accumulando un patrimonio di informazioni che ha un enorme potere politico, organizzativo e di controllo, restituiscono solo alla comunità dalla quale sono partiti una piccola parte della loro ricchezza, che è quella che è visibile dai bilanci scritti in dollari (o in euro), trattenendo per sé tutto il resto.
Lo schema è, evidentemente, inaccettabile, anche perché gli effetti del suo funzionamento sulle economie e sulla socialità delle collettività che si limitano ad offrire i dati sono devastanti e possono riflettersi sul cattivo funzionamento dei sistemi democratici o, comunque, di pubblico dibattito.
I sistemi finora ipotizzati per contrastarlo o almeno contenerlo sono inefficaci: l’idea di una tassazione minima necessaria, per esempio, impedisce fenomeni di dumping fiscale, cioè di fuga da un paese verso altri a fiscalità privilegiata, ma non tocca minimamente i fondamentali del problema e cioè che questi giganti non pagano imposte sulla vera ricchezza che stanno accumulando, costituita dalle montagne di dati che raccolgono, e, soprattutto, non pagano imposte a favore dei paesi, dai quali estraggono quei dati.
Per trovare una soluzione al problema, appare ragionevole invece partire da un presupposto finora sottovalutato, non dalle aziende, ma dagli Stati: i dati hanno un chiaro contenuto economico, che si manifesta soltanto attraverso il loro impiego secondo normali logiche commerciali.
Accettato questo punto di partenza, però, diviene consequenziale ritenere che il loro accumulo, il loro possesso o anche solo la loro raccolta possano costituire il presupposto di imposizione, nel rispetto del principio della capacità contributiva accolto da quasi tutte le Costituzioni occidentali. E si può anche ritenere che ad effettuare l’imposizione sia non lo Stato dove i dati vengono accumulati, bensì quello dal quale vengono prelevati.
In sostanza, bisogna impegnarsi perché il nostro Paese introduca disposizioni che chiedano a qualunque soggetto che acquisisce dati nel nostro paese, mediante sistemi di accounting o sistemi di tracciamento informatico, non solo che ne informi l’utente finale (come già accade con la messaggistica sui cookies), ma anche che versi qualche centesimo di euro per ogni operazione di tracciamento/raccolta effettuata.
Così, si potrebbe chiedere ai giganti multinazionali di pagare davvero le tasse sulla enorme ricchezza che stanno razziando.
Una misura di questo genere può essere distorsiva dell’economia o pregiudicare gli utenti finali, imponendo loro costi che ora sono solo latenti?
Si può pensare che entrambe le domande meritino una risposta negativa. Già ora i sistemi di vendita delle app e quindi di profilazione appaiono organizzati su base essenzialmente nazionale; d’altra parte, le imprese che non intenderanno utilizzare i dati per fini commerciali, eviteranno di acquisirli; quelle che li usano, non rinunceranno al nostro mercato per pochi centesimi, né rischieranno di perdere utenti, imponendo loro costi che modificheranno il loro modello di business.
Invece, una tassazione di questo genere, può prevedere forme di agevolazione per start up che abbiano sede nel nostro paese, per esempio mediante una temporanea limitazione dell’imposizione.
Luigi Murciano, Avvocato