Di Giuseppe Bertagna, pedagogista, Università di Bergamo
Quasi uno studente lombardo su 4 (29,5) è uscito dagli esami di stato con un voto tra 71 e 80. In Campania la percentuale è del 25,7, in Sicilia del 24,9, in Puglia del 23,8 e in Calabria del 22,5. Gli studenti con una votazione tra 81 e 100 sono stati in Lombardia il 33,5%, in Sicilia e Puglia il 36,8%, in Calabria del 37,9% e in Campania del 39,1%. I 100 lombardi sono stati il 6,7%, mentre quelli campani sono stati 10,7%, i siciliani e pugliesi il 12% a testa e i calabresi il 12,8%. Interessante il numero delle lodi: solo l’1,5% dei diplomati lombardi. Ma in Calabria è del 6,6%, in Puglia del 6,3%, in Sicilia del 4,8% e in Campania del 4,1%.
Nel 2007, in nome del riconoscimento del cosiddetto «merito scolastico dei giovani», il ministro Fioroni dispose di distribuire 1000 euro di premio a chiunque avesse ottenuto 100 e lode. Poiché i fondi a bilancio da allora non sono più stati aggiornati, mentre le lodi sono aumentate, nel 2010 gli euro disponibili per studente con lode erano scesi a 600, nel 2011 a 500, nel 2019 a 255, nel 2020 a 140. Quest’anno ben al di sotto dei 100 euro. Inflazione delle lodi (come delle votazioni generose, oltre che delle promozioni, agli esami finali)? Sono i lombardi ad essere meno meritevoli dei coetanei del sud?
L’interrogativo serve per prendere le distanze dai numeri. Spesso, infatti, le statistiche, danno in realtà soltanto i numeri.
Se andiamo infatti a vedere le analisi dell’Invalsi 2022 verifichiamo realtà sconsolanti. La dispersione esplicita (mancato conseguimento del diploma) dei giovani italiani è del 13,5%. Più preoccupante è la dispersione implicita, come la definisce l’Invalsi. Riguarda gli studenti che, pur ottenendo il diploma, spesso in ritardo, non possiedono nelle tre aree indagate (italiano, matematica, inglese) competenze di livello accettabile, cioè il livello 3 su una scala di 5. Secondo l’Invalsi questi dispersi “impliciti”, che erano il 7,5% nel 2019, sono saliti al 9,8% nel 2021 anche a causa delle difficoltà provocate dalla didattica a distanza, per attestarsi al 9,7% nel 2022. La percentuale di insufficienti in italiano è, però, del 48% in quinta superiore. Analogamente in matematica non arrivano al livello minimo il 50% degli studenti. Con vistose differenze territoriali, tuttavia: al Nord i risultati sono dignitosi, al Sud e isole, purtroppo, penosi (qui la maggioranza non se la cava affatto). Giova ricordare che il 95% dei candidati all’ultimo concorso in magistratura è stato bocciato per assoluta inadeguatezza nell’uso della lingua italiana. Così come che gli ultimi concorsi per l’insegnamento di discipline Stem nelle secondarie hanno coperto molto meno della metà dei posti disponibili proprio per le loro carenze matematico-scientifiche. Insomma se le secondarie piangono le lauree magistrali (e perfino i dottorati) non ridono.
Commentare senza ipocrisie l’esame di stato è come voler parlare male di Garibaldi. Il politicamente corretto non lo sopporta. E ancora di più non lo sopporta chi vive felice nel Truman show mediatico che lo accompagna ormai con ripetitività ossessiva da così tanti decenni.
In effetti, gli antropologi culturali ci hanno avvertito da un secolo (ma lo si sapeva dai tempi dell’antichità classica) che non può esistere una società senza riti di passaggio che segnano la transizione dall’ età giovanile a quella adulta. Viene il dubbio, però, che la nostra società non stia proprio bene se l’unico rito di passaggio riconosciuto dal sentire comune di famiglie e mass media per i giovani sono i nostri esami di stato. Tutte le culture del mondo sanno che questi riti dovrebbero essere prove severe, davvero dimostrazione di «maturità» umana. Noi, per non avere problemi, abbiamo addirittura eliminato questo termine dal vocabolario amministrativo e scolastico: dal 1997, Berlinguer ministro, non ci sono più gli «esami di maturità», ma, appunto, solo «gli esami di stato».
La crisi di questa formula era quindi già evidente nel secolo scorso. Non a caso il compianto Aldo Visalberghi nel 1974 aveva fatto istituire dal ministro Malfatti il Cede, il Centro Europeo dell’Educazione, l’antesignano dell’attuale Invalsi, fondato nel 1999. Lo scopo era fornire ai decisori politici elementi concreti per provvedimenti capaci di aumentare la qualità dell’istruzione, non certo fornire i dati statistici per riempire le pagine dei giornali o talk dei mass media. Sono quindi almeno 25 anni che si conoscono le debolezze degli esami di stato e si è consapevoli dei loro problemi. Ma siamo al punto di partenza, nonostante tutte le cosmesi che ogni ministro si è inventato per lasciare il segno del suo passaggio nella storia. Nessun intervento strutturale. Nessuna riforma che abbia invertito la tendenza al ribasso nella quale ci siamo involti da decenni.
Si aprirà ad ottobre una nuova legislatura. C’è da sperare che non continui a curare una gravissima polmonite con amorevoli bagni caldi e paternalistiche raccomandazioni. La scuola italiana è un processo al 50% fallimentare. Un cinico la definirebbe una fabbrica dell’ignoranza. Non si può andare avanti in questo modo.