Alessandro Papini
dirigente MI Area V
ISIS G. Vasari – Figline e Incisa Valdarno
Per coloro che sono addentro ai meccanismi e ai problemi della Scuola, che ne vivono ogni giorno potenzialità e criticità, successi e fallimenti, la proposta di un obbligo dai tre ai diciott’anni è un monstrum giuridico e pedagogico, che non ha eguali in tutta l’Unione Europea. Già di per sé l’obbligo nella Scuola dell’Infanzia sarebbe irrealizzabile, in quanto l’opzione dell’istruzione parentale, prevista per Legge, consentirebbe comunque di non ottemperare a tale precetto. E non sarebbe poi possibile sostenere il prescritto esame di idoneità al termine di ciascun anno, giacché la Scuola dell’Infanzia non prevede tale istituzione. La proposta è dunque pura demagogia, un sasso gettato in uno stagno già di per sé limaccioso, un esempio estremo di statalismo ingessato che anziché affiancarsi alle famiglie nel supporto all’infanzia vuole sostituirsi ad esse nel progetto educativo.
La Scuola dell’Infanzia non può essere vista infatti come un obbligo, ma piuttosto come una opportunità straordinaria che deve essere resa disponibile per tutti coloro che ne abbiano necessità o comunque lo desiderino. Se si considera che delle oltre ventitremila scuole dell’Infanzia italiane quasi la metà sono non statali, si arriva facilmente alla risposta: per dare concretezza a tale opportunità occorre abbattere quelle barriere che si frappongono alla frequenza nella fascia 0-6 (nidi d’infanzia e scuole dell’infanzia) con una accorta politica di sostegno alle famiglie con figli.
Per quanto riguarda l’estensione dell’obbligo in uscita dobbiamo purtroppo constatare come l’attuale meccanismo non funzioni; l’obbligo scolastico fino ai sedici anni è di fatto monco: non si consegue nessun titolo al termine della seconda classe della Scuola di Secondo Grado, perché anche per la qualifica professionale bisogna arrivare al terzo anno. Ma non è estendendo l’obbligo scolastico che si eviterebbe la dispersione: già adesso non vi sono in pratica margini di intervento nei confronti di chi elude tale vincolo: constatata l’evasione, la scuola scrive al Sindaco e all’Ufficio Scolastico; in caso di irreperibilità del minore si avvia una ricerca su tutto il territorio nazionale. Difficilmente, dunque, si trova soluzione prima che il ragazzo compia il sedicesimo anno; se poi questi frequenta anche un giorno al mese non si può avviare alcuna segnalazione di evasione: ampliare l’obbligo fino ai diciotto anni non farebbe altro che calcificare tale situazione fino alla maggiore età.
La vera soluzione al problema dell’abbandono è però già presente nella normativa italiana, e risiede nel diritto-dovere alla formazione sancito dalla Legge Moratti; questa assicura a tutti il diritto all’istruzione e alla formazione per almeno dodici anni o, comunque, sino al conseguimento di una qualifica entro il diciottesimo anno di età. Al netto delle proposte demagogiche gettate sul tavolo da chi non è addentro al problema, la risposta risiede dunque nel potenziamento dell’orientamento in uscita dal Primo Ciclo, e nella valorizzazione del sistema di Istruzione e Formazione Professionale. Dando vera attuazione all’obbligo formativo (e non già semplicemente scolastico) occorre dunque rivalutare quei percorsi professionali che offrono la sussidiarietà integrativa (per conseguire anche la qualifica nel percorso di studi) orientando con attenzione verso di essi gli studenti che mostrano spiccate attitudini tecnico-pratiche. Ne risulterà un arricchimento professionale nelle diverse filiere di pertinenza, non ultima quella turistico-ricettiva, già da adesso motore della ripartenza: gli
studenti formati dagli istituti alberghieri, che parlano due lingue straniere e hanno solide competenze gestionali e amministrative, sono tornati dopo la pandemia ad essere il traino del settore turistico, con significative possibilità di ulteriore crescita. L’istruzione tecnica e quella professionale formano infatti l’Uomo e il Cittadino al pari di quella liceale, anche se purtroppo si sentono oggi affermazioni contrarie, azzardate e inconsapevoli, ad opera di chi evidentemente non conosce le nostre realtà tecniche e professionali di eccellenza. È infatti con la differenziazione degli indirizzi, con la possibilità di offrire a ciascuno studente il percorso di studi più affine alle sue aspettative e potenzialità che la Scuola torna ad avere quel ruolo di ascensore sociale che consente ai capaci e meritevoli, anche se in condizione non agiata, di arrivare ai gradi più alti dell’istruzione. Troppo spesso ci si dimentica della lezione di Don Milani, quando ci ricorda come non vi sia nulla di più ingiusto che fare parti uguali fra disuguali. E dunque la proposta di trasformare tutte le scuole superiori in licei non può far altro che livellare verso il basso quelle eccellenze: un ascensore sociale che resta fermo al piano terra.