Nicola Casagli
Professore ordinario di Geologia applicata all’Università degli Studi di Firenze e Presidente dell’Istituto Nazionale di Oceanografia e di Geofisica Sperimentale
Quest’anno ricorre il 60° anniversario del Vajont, la più grande catastrofe idrogeologica della nostra storia, causata in parte dalla natura e in parte dall’improvvida azione dell’uomo. A distanza di sessant’anni molto è stato fatto per ridurre il rischio di catastrofi idrogeologiche, ma tanto resta ancora da fare, come dimostrano i recenti eventi calamitosi che hanno colpito vaste aree della Nazione.
Le inondazioni e le frane sono le principali componenti del cosiddetto rischio idrogeologico, che interessa in modo pervasivo pressoché tutto il territorio italiano, come dimostrano i dati dell’ISPRA, i quali evidenziano che il 94% dei Comuni sono esposti al rischio idrogeologico e che oltre il 18% del territorio è classificato a rischio elevato o molto elevato.
Inondazioni e frane, a differenza dei terremoti, sono considerati rischi prevedibili, per i quali la comunità scientifica ha messo a punto modelli previsionali che alimentano il Sistema di Allertamento Nazionale, sia per quanto riguarda gli aspetti meteorologici che per gli effetti attesi al suolo. Il fatto che inondazioni e frane siano considerati fenomeni prevedibili, non significa che possano essere sempre e comunque previste e, più che altro, che se ne possano sempre prevedere con esattezza le conseguenze.
La previsione di uno scenario di rischio utile per finalità di protezione civile deve comprendere molteplici componenti dell’evento atteso: l’intensità, la probabilità di accadimento spaziale e temporale, la distribuzione degli elementi esposti a rischio e la loro vulnerabilità. Non esistono ad oggi modelli capaci di prevedere con sufficiente grado di certezza tutti questi aspetti, per cui il Sistema di Allertamento Nazionale può dare indicazioni utili sull’imminenza di eventi idrogeologici critici, ma non può certamente rappresentare uno strumento per ottenere previsioni certe delle conseguenze, su cui basare azioni di prevenzione sempre efficaci.
Tutto questo può essere tuttavia migliorato grazie ai progressi in campo scientifico soprattutto nel campo dell’intelligenza artificiale e nella capacità di elaborazione di big data. Un fondamentale passo avanti potrebbe consistere nella realizzazione di un gemello digitale (digital twin) idrogeologico dell’intero Paese, ovvero di una rappresentazione digitale del territorio, del reticolo idrografico, del suolo, del sottosuolo, degli abitati e delle opere infrastrutturali, tale da fornire una piattaforma condivisa per la raccolta di dati satellitari, da droni, dalle reti di monitoraggio in situ, per consentire la loro immediata elaborazione con strumenti di calcolo ad alte prestazioni. Il gemello digitale potrà consentire analisi di scenario e la risposta a quesiti “what if” per migliorare significativamente la previsione degli effetti al suolo in risposta alle forzanti meteorologiche. Siamo purtroppo ancora lontani da questo obiettivo, se si pensa che in Italia non è ancora oggi disponibile un modello digitale del terreno ad alta risoluzione, ottenibile con costi ragionevolmente ridotti attraverso scansioni laser da piattaforma aerea (LIDAR).
Risulta altresì necessario migliorare le capacità di raccolta e di messa in rete di dati secondo il paradigma “FAIR” di reperibilità, accessibilità, interoperabilità e riutilizzabilità. La frammentazione delle competenze in materia di contrasto al dissesto idrogeologico, fra Stato, Regioni, Città metropolitane, Province, Comuni, comunità scientifica e settore privato, non rappresenta un problema se si assicura la condivisione dei dati e delle informazioni con gli strumenti più avanzati che la tecnologia ci mette oggi a disposizione.
Anche sul fronte dei Piani di Protezione Civile si può fare di meglio e di più. Essi rappresentano il principale strumento di prevenzione cosiddetta “non strutturale” in capo alle amministrazioni locali. Pressoché tutti i Comuni italiani sono oggi dotati di un Piano di Protezione Civile redatto secondo linee guida nazionali e regionali. Troppo spesso però esso rimane un adempimento burocratico privo di reale efficacia. Anche qui devono entrare in gioco le nuove tecnologie: i Piani dovrebbero essere portati a conoscenza di tutti i cittadini con gli strumenti che la telematica ci mette a disposizione. Un Piano per funzionare deve essere conosciuto e soprattutto esercitato. Le esercitazioni di protezione civile e le simulazioni di evento dovranno diventare il principale strumento per la difesa dalle catastrofi idrogeologiche. Il cittadino deve infatti sapere prima esattamente cosa fare, per evitare che in corso di evento metta in atto comportamenti scorretti che troppo spesso sono causa di conseguenze fatali.
Sistema di allertamento e pianificazione di protezione civile devono procedere di pari passo. Ad esempio, in caso di allerta di codice rosso o di aggravamento di un codice arancione, tutte le misure di salvaguardia previste dal Piano devono essere efficacemente attuate. La lunga emergenza Covid-19 ha permesso di diffondere l’uso di tecnologie per il telelavoro e la teleformazione. In caso di preannuncio di un evento calamitoso tali tecnologie possono permettere di togliere persone e automezzi dalle strade, limitando sensibilmente i danni e facilitando l’azione dei mezzi di soccorso.
Sempre in tema di interventi di prevenzione non strutturale possiamo citare i provvedimenti della nuova Legge di bilancio per l’introduzione di un sistema assicurativo per la copertura dei danni provocati dalle calamità naturali. Attesa da molti anni ma mai attuata, tale misura avrebbe indubbiamente l’effetto di favorire la percezione del rischio da parte dei cittadini e delle amministrazioni locali. Infatti, se il livello di rischio entrerà nella determinazione del premio delle assicurazioni e nella valutazione del valore degli immobili e dei terreni, si potrebbe innescare un percorso virtuoso per la costruzione di una comunità effettivamente resiliente.
Il rischio idrogeologico non è infatti solo un problema geologico o di cambiamento climatico; esso dipende anche dall’urbanizzazione poco controllata che ha interessato l’intera Nazione a partire dagli anni ’60, in conseguenza della tumultuosa crescita economica e demografica. Adesso che né la popolazione, né l’economia crescono più con i ritmi di allora, non ha più senso continuare a consumare suolo con nuove edificazioni con lo stesso tasso di quegli anni. Eppure, sempre i rapporti dell’ISPRA evidenziano come il consumo di suolo persiste inesorabile a crescere al ritmo di 70 ettari al giorno, oggi esattamente come allora. Molti Comuni annunciano piani urbanistici a zero consumo di suolo, ma poi nella pratica l’attuazione si rivela problematica perché i costi e la burocrazia per l’edificazione in aree “vergini” risultano nettamente più convenienti rispetto alle ristrutturazioni e ai recuperi di aree abbandonate. Se non si esce da queste logiche poco virtuose il problema del dissesto idrogeologico sarà destinato ad aggravarsi, perché ogni nuova edificazione conduce inevitabilmente all’impermeabilizzazione del suolo, con conseguente riduzione dei tempi di concentrazione delle piene e aggravamento dell’instabilità dei terreni superficiali.
Un’efficace mitigazione del rischio idrogeologico non può poi prescindere da interventi strutturali, ovvero opere di ingegneria opportunamente progettate e preventivamente realizzate. È di assoluta importanza che la Protezione Civile recuperi le competenze nel settore della prevenzione strutturale che, negli ultimi anni, sono state progressivamente ridotte. Considerata la vastità del problema è raccomandabile investire in tante opere diffuse, come ad esempio le sistemazioni idrauliche e forestali dei bacini montani, le regimazioni idrauliche delle aree di pianura e collinari e la realizzazione di opere di stabilizzazione dei versanti.
Di primaria importanza risulta la realizzazione di invasi e di casse di espansione, ovvero di opere in grado di immagazzinare le acque, laminando le piene e procurando riserve idriche utilizzabili nei periodi siccitosi. Perché è bene ricordare che nell’ambito del dissesto idrogeologico rientrano a pieno titolo anche la siccità e il sovrasfruttamento delle risorse idriche.
Un eccellente programma di interventi strutturali di protezione idrogeologica e di difesa del suolo era già stato proposto dalla Commissione interministeriale De Marchi all’indomani dell’alluvione di Firenze del 1966. Il Piano stimava un fabbisogno di circa 2,5 miliardi di euro all’anno (ai valori correnti) per 30 anni. Inutile dire che né tale Piano, né i molti che gli sono succeduti, sono mai stati finanziati, se non per stralci frammentari.
Sarebbe quindi importante un grande programma di investimenti pubblici per approntare una seria difesa contro i rischi idrogeologici. Esso dovrebbe procedere di pari passo con un’efficace semplificazione normativa. È infatti necessario superare l’eccessiva regolamentazione che, negli ultimi anni, ha interessato il settore dei contratti pubblici, ostacolando l’azione della pubblica amministrazione, ritardando gli investimenti pubblici e penalizzando soprattutto la piccola e media impresa nel settore della difesa del suolo e della protezione idrogeologica. Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza potrebbe costituire un’irripetibile occasione, se liberato dall’eccessiva complessità burocratica che, purtroppo, lo caratterizza.