Dario Pejrone
Professore associato di economia e gestione delle imprese presso l’Università di Torino
L’approvazione (non entusiastica) della riforma del Patto di Stabilità da parte del governo italiano e la bocciatura del MES da parte del Parlamento sono le notizie economiche che hanno avuto più rilevanza alla fine del 2023. Molti economisti hanno criticato entrambe le azioni da un punto di vista tecnico, critiche riprese anche dalle opposizioni al governo Meloni.
In realtà, entrambi sono documenti non puramente tecnici ma, come si è visto dall’iter di discussione che li ha accompagnati, sono accordi essenzialmente politici. Da un punto di vista economico, infatti, nessuno dei due trattati appare fondamentale o anche solo positivo, se guardato da un punto di vista liberale.
Il MES e il Patto di Stabilità costituiscono, insieme, l’asse portante della governance economica europea. Secondo la prospettiva Law and Economics, la struttura di governance ha il ruolo di fornire a tutte le parti di un sistema produttivo i giusti incentivi, per perseguire una traiettoria di sviluppo. Se si guarda ai tassi di crescita della UE (in particolare la zona euro) negli ultimi 15 anni, si comprende perché la governance precedente fosse giudicata fallimentare. Eppure, la riforma proposta in realtà tocca solo marginalmente la questione della crescita. Qual è quindi la visione strategica alla base di questa riforma? Ecco il punto più preoccupante: non appare evidente alcuna visione strategica per lo sviluppo economico europeo.
A livello di sistemi produttivi il dibattito economico si concentra ormai non tanto sull’ottenere un tasso di crescita costante, quanto sulla capacità di resistere e di innovare di fronte agli shock esterni. Questo si ottiene consentendo una grande flessibilità degli ecosistemi nazionali. Ecco allora che una struttura di governance sovranazionale dovrebbe garantire e incentivare i governi alla flessibilità e alla innovazione delle politiche economiche.
Purtroppo, non è questo che si trova nella riforma. Vi è invece molta genericità rispetto agli obiettivi e molto dettaglio nelle procedure di controllo e nelle procedure sanzionatorie, mostrando che tali riforme sono state costruite in maniera burocratica anziché in maniera strategica.
La discussione tra i governi europei ha accentuato questa caratteristica, concentrandosi sulle clausole anziché sulla struttura complessiva. In questo contesto le scelte italiane sono criticabili esattamente come quelle di qualunque altro paese, considerando che ciascuno ha trattato sui dettagli che gli interessavano. Insomma, criticare l’Italia perché non ha ottenuto questa oppure quella clausola, o perché non ha approvato il Mes, non solo non ha senso in questo contesto, ma perde di vista il vero problema. Che è quello della mancanza di strategia da parte dell’Unione Europea. In un contesto nazionale ma soprattutto internazionale così incerto come quello che abbiamo oggi, questo dovrebbe essere il punto cruciale.
Al contrario, tutta la riforma di governance si basa su una sola questione: la riduzione del rischio. Quale rischio? Il default di stati e banche? Ebbene sì, a quanto pare la UE è così ottimista sul nostro sistema economico da costruire tutta la sua governance sulle modalità per ridurre questo rischio. Eppure, gli economisti liberali ci insegnano che dove c’è un apparato fiscale in grado di funzionare, un’autorità statale solida ed una forte capacità produttiva a lungo termine, è molto difficile che ci sia un rischio di default di uno stato sovrano, anche con forti squilibri di debito pubblico. Questo è dimostrato dai casi in cui ci sono effettivamente stati dei default di stati sovrani, tutti casi in cui mancavano una o più di queste caratteristiche. Per quanto riguarda le banche, forse sarebbe il caso di riformare la Banca centrale europea, anziché costringere tutti i governi europei a ratificare il MES, che si è già dimostrato inadeguato.
Il governo italiano, in questo contesto, non ha fatto altro che giocare la sua partita, mostrando che sulla mancata ratifica del MES non stava “bluffando” e, dall’altra parte, ottenendo alcune clausole che gli interessavano sul Patto di stabilità (in particolare l’allungamento del piano di aggiustamento del debito su 7 anni). Insomma, ha giocato una partita politica, facendo scelte politiche, su riforme politiche. Ha quindi agito con piena legittimità, ed invocare ragioni “tecniche” per cui queste scelte sarebbero dannose, significa porsi in un’ottica, di nuovo, squisitamente politica e tutt’altro che economica.
Il vero punto di cui si dovrebbe cominciare a discutere è che un siffatto sistema di governance rischia di diventare un collo di bottiglia, anziché un incentivo a migliorare quelli che sono in questo momento i difetti e ad affrontare le problematiche dell’economia europea.