Nobilita il lavoro tecnico e dà concretezza all’istruzione
Fiorella Lunardon
ordinaria di diritto del lavoro all’Università di Torino
Da decenni l’ordinamento lavoristico tenta la costruzione di una fattispecie in grado di coniugare scuola e lavoro. Partendo dal contratto di tirocinio di codicistica memoria, il legislatore è ciclicamente intervenuto introducendo tipologie di nuovo conio, via via superate dalla infinita sequenza di riforme che ha rivoluzionato la materia dei contratti formativi, i quali acquisiscono tradizionalmente la definizione di “speciali” perché a causa mista, in base all’alterazione del sinallagma classico: non solo retribuzione versus prestazione, ma retribuzione e formazione versus prestazione.
E’ sufficiente ricordare, in proposito, il contratto di formazione e lavoro, introdotto nel 1984 e poi sostituito dal contratto di inserimento (pure esso successivamente abrogato), l’apprendistato, rivitalizzato nel 2003 attraverso una triplice articolazione dello schema contrattuale a seconda della finalità (i c.d. tre apprendistati: per l’espletamento del diritto-dovere di istruzione e formazione; professionalizzante; per l’acquisizione di un diploma o per percorsi di alta formazione), poi oggetto di razionalizzazione da parte addirittura di un Testo Unico emanato nel 2011 ed infine transitato nel c.d. codice dei contratti di cui al d. lgs. n. 81/2015 (Jobs Act) con notevoli elementi di semplificazione per quanto attiene al primo e terzo livello, divenuti ora rispettivamente “apprendistato per la qualifica e per il diploma professionale, il diploma di istruzione secondaria superiore e il certificato di specializzazione tecnica superiore” (art. 43, D.Lgs. n. 81/2015) e “apprendistato di alta formazione e di ricerca” (art. 45, D.Lgs. n. 81/2015).
Tutte le menzionate tipologie hanno in comune la caratteristica di essere lavoro-centriche e non a caso l’obbligo formativo è collocato in capo al datore di lavoro cui è imposto di fornire formazione o istruzione all’interno di una cornice normativa pluri-stratificata perché composta, oltre che dalle disposizioni di legge, dalle clausole di accordi interconfederali e contratti collettivi nazionali e dalla normativa regionale (che avrebbe dovuto essere) emanata ad hoc.
Il complesso intreccio delle fonti unito all’inerzia di talune regioni, alla scarsa chiarezza dei precetti fondamentali e alla pluralità dei soggetti coinvolti sono tuttora causa dello scarso apprezzamento e della bassa diffusione di tali contratti che per lo più si risolvono in occasioni di mero lavoro per una manodopera scarsamente qualificata e destinata a rimanere tale.
Con il Ministro Valditara l’iniziativa di rendere finalmente proficuo, sia per le imprese che per i giovani, il raccordo scuola – lavoro proviene per la prima volta dal versante dell’istruzione. L’istituzione di una filiera formativa tecnologica professionale colma infatti la più vistosa lacuna dell’assetto ordinamentale precedente, consistente nella mancanza di coordinamento tra i diversi soggetti responsabili della creazione delle competenze (il saper come fare) e della loro traghettazione verso il mondo del lavoro.
La filiera è configurata secondo il criterio dell’adattabilità alle esigenze del territorio in cui è destinata ad affondare le proprie radici e della modularità strutturale, essendo prevista “un’integrazione tra gli interventi statali e gli interventi regionali relativi al sistema educativo dell’istruzione e formazione professionale” basati su accordi (stipulati dalle regioni con gli uffici scolastici regionali) che “potranno anche prevedere l’istituzione di reti, denominate campus, in grado di offrire percorsi formativi condivisi con i vari soggetti coinvolti” (art.1, comma 1, ddl 924).
Ulteriore punto di forza di questo progetto ambizioso (come non possono che esserlo tutti i progetti di grande respiro), teso a creare un sistema di sinergie virtuose e coerenti con le esigenze produttive e sociali, è la prefigurazione dei percorsi quadriennali sperimentali.
Ben lungi dal costituire un “impoverimento” del percorso classico cui è avviato lo studente, i percorsi quadriennali offrono la possibilità di un periodo di studio a più alta intensità (“consentono il raggiungimento degli obiettivi di apprendimento e delle competenze previsti per il quinto anno di corso entro il termine del quarto anno, ferme restando le norme in materia di rilascio dei titoli di studio finali”), con uno sbocco lavorativo non tanto “precoce”, quanto incanalabile nella forma contrattuale dell’apprendistato, che finora è rimasto in gran parte inutilizzato (e sul quale nessuno aveva trovato da ridire).
L’offerta formativa, parimenti, viene ampliata e ridefinita, eventualmente personalizzata; soprattutto, con decisa innovazione, si consente “ai soggetti che hanno concluso un percorso quadriennale l’accesso diretto agli ITS Academy” per un biennio, così definitivamente smentendo le preoccupazioni espresse in ordine ad una riduzione dei contenuti formativi prospettati rispetto all’esistente. Che poi le imprese italiane riscontrino da sempre difficoltà nel reperire manodopera tecnica qualificata o dotata di competenze trasversali è un dato che non può essere posto in dubbio, specie nell’attuale momento di transizione sociale, culturale, occupazionale ed ecologica. Non possono allora che sorprendere sotto questo profilo le perplessità – invero più ideologiche che di sostanza – manifestate nei confronti di una riforma che promette, con l’aumento delle occasioni di lavoro, la riqualificazione delle conoscenze/competenze professionali dei giovani destinati ad abitare il futuro prossimo della rivoluzione tecnologica e digitale.