Dino Cofrancesco
I provvedimenti adottati dalla sindaca di Monfalcone , in merito alla libertà di culto e alla sua manifestazione individuale e collettiva e quelli presi dal Consiglio dell’Istituto Iqbal Masih di Pioltello sulla chiusura della scuola per la festa del Ramadan hanno scatenato un tormentone destinato a non estinguersi tanto presto. Da più parti ci si è richiamati all’art.49 della Costituzione: ”Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume” ma nessuno si è chiesto qual era la civic culture e quali erano le esperienze storiche che avevano dettato ai padri costituenti quella norma di autentica civiltà liberale.
In realtà, le minoranze religiose, nel nostro paese, non solo non hanno mai costituito un problema per l’identità nazionale—protestanti ed ebrei ebbero un ruolo importante nelle vicende risorgimentali—ma una di queste minoranze, quella ebraica, ha espresso ben tre presidenti del Consiglio (Alessandro Fortis, Luigi Luzzatti, Sidney Sonnino). Un numero non registrato né dalla Francia né dall’Inghilterra. Faccio rilevare che oggi gli ebrei italiani (UCEI) sono 30 mila, gli induisti viventi in Italia 177.200 (Unione Induista Italiana),i buddisti 140.000 (Soka Gakkai) e che nessuna di queste etnie religiose (chiamiamole così), oggi e in passato, ha creato particolari problemi di convivenza. Che le cose siano cambiate con la massiccia immigrazione islamica è un fatto forse inevitabile, sicuramente innegabile. In Europa ormai interi quartieri sono governati dalla sharia: si può prenderne atto e adottare atteggiamenti di tolleranza ma intanto si ha il dovere di riconoscere che lo stato moderno, nel senso dei classici del pensiero giuridico e politico, sta progressivamente cambiando i suoi antichi connotati.’ Cosa fatta capo ha’: forse non resta che rassegnarsi ma non si ha il diritto di insolentire contro chi ‘non si rassegna’. E’ quanto fa, in sostanza, Luigi Manconi nell’articolo I diritti universali pubblicato su ‘la Repubblica’ del 28 marzo u.s. La comunità musulmana (giacché di essa si tratta, non di generica ’presenza straniera’) per l’opinion maker è una risorsa che può determinare ”importanti problemi di inclusione e di convivenza” ma che nondimeno può rivelarsi assai preziosa per l’arricchimento economico, sociale e culturale del nostro paese.. Un’opinione rispettabile ma perché chi la pensa diversamente da Manconi—mi limito a ricordare i compianti Giovanni Sartori e Oriana Fallaci– deve essere ascritto alla DN (Destra nevrastenica) che “quella ‘risorsa’ fa uscire dai gangheri?”.
A mio avviso, la portata simbolica dei fatti di Pioltello va esaminata “con occhio chiaro econ affetto puro” se si vuole davvero il dialogo ed evitare la guerra civile. Qual è la reale posta in gioco della divergenza di opinioni? Quali sono le diverse interpretazioni del liberalismo e del pluralismo che si contengono il campo?” Vassene il tempo e l’uom non se ne avvede”, per citare, ancora una volta, Padre Dante. Non possiamo fingere che principi e valori maturati in contesti storici diversi dal nostro valgano come se, nel frattempo, non sia cambiato nulla. E’ quanto sembra sfuggire a Pierluigi Battista, che su ‘HuffPost’ del 25 marzo u.s., ha scritto: ”permettere agli studenti di celebrare il Ramadan non è cedimento: è la nostra libertà.Noi dovremmo essere tutto ciò che i fondamentalisti odiano. Davvero non capisco tutto questo scandalo perché in una scuola che ospita studenti figli di una famiglia di fede musulmana venga consentito di onorare il Ramadan”.La risposta è che in una società rigorosamente laica (semmai possa esistere) la scuola pubblica è tenuta a ignorare il Ramadan e a non consentire il crocifisso in aula (rimozione che non piace a Battista) e quindi a non riconoscere nessuna forma di pluralismo, mentre un pluralismo altrettanto intransigente e rigoroso dovrebbe concedere agli alunni di ogni credo religioso sia l’esenzione dalle lezioni sia l’affissione nelle aule scolastiche di tutti i simboli venerati dai singoli alunni—indipendentemente dal loro numero: 10 musulmani non hanno più diritto ad affiggere alle pareti i versetti del Corano di quanto non ne abbiano due ebrei ad appendere la stella di David.
Aggiungo che sulla vicenda di Pioltello ha detto cose più sensate il simpatico Mauro Corona, scrittore-scultore -alpinista, ospite fisso della rubrica di Bianca Berlinguer su Rete 4, quando si è chiesto: ‘Qual è la ragione di tanto polverone?. Si trattava solo di giustificare l’assenza degli studenti islamici per il Ramadan senza per questo lasciare a casa gli altri”.
Ho l’impressione che, per molti, il pluralismo, a fondamento della civiltà liberale, sia un modello di convivenza che esige dai cittadini unicamente il rispetto delle norme costituzionali, il versamento delle imposte, la partecipazione (non obbligatoria) alla vita politica. “Una comunità di natura etnica o religiosa o culturale può essere parte integrante della società nazionale purché rispetti le leggi e non violi i principi basilari sui quali poggiano quella stessa società e il suo ordinamento giuridico: in primo luogo, quelli della libertà e dell’uguaglianza”, ha scritto Luigi Manconi su ‘La Repubblica’ del 28 marzo .In fondo, non è questo il ‘patriottismo costituzionale’ di Jurgen Habermas che tante riserve critiche ha sollevato, anche in studiosi e scienziati politici non conservatori, come Gian Enrico Rusconi? Le riflessioni di Manconi inducono a credere che tutto ciò che è cultura, tradizione, lingua, letteratura, arte , religione rientri in una sfera privata, dove ogni etnia ha il diritto e la libertà di coltivare la propria ‘separatezza’. Ne esce fuori non una società moderna e liberale ma una federazione di etnie culturali e religiose che s’incontrano negli incroci dei rapporti sociali—le istituzioni neutre come il tribunale, la scuola, la polizia, lo sport—ma vivono intensamente solo nel chiuso delle rispettive tribù. E’ l’opposto di quanto avveniva un tempo negli Stati Uniti dove italiani, irlandesi, polacchi erano fieri di essere diventati americani, anche se conservavano riti e tradizioni come la Festa di San Gennaro a Brooklyn. Mi sia consentito un ricordo d’infanzia. A Bacoli (alle porte di Napoli) la mia famiglia d’estate veniva ospitata da amici che mostravano orgogliosamente le fotografie di figli e nipoti americani–in divisa di ufficiale dei Marines o in tuta di tecnico o con lo spezzato tipico della classe media—che si erano perfettamente integrati, parlavano inglese, mandavano i figli nelle scuole private, vivevano in confortevoli cottages, senza peraltro dimenticare il Golfo, Santa Lucia luntana a te, il casatiello e la mozzarella. Insomma, per loro la cittadinanza americana era l’identità primaria, le origini italiane erano ‘qualità secondarie’ ma tutt’altro che rimosse.
A mio parere, bisogna acquisire la consapevolezza che, con l’irruzione nello spazio euro-atlantico di culture davvero diverse (e di difficile integrazione), le idee e le misure del passato vanno per lo meno aggiornate. Ormai esistono due liberalismi: il liberalismo comunitario—di cui ho scritto nel saggio Per un liberalismo comunitario. Critica dell’individualismo liberista (Ed. La Vela)—e un liberalismo cosmopolita e neo-illuminista. E’ il vero, decisivo, conflitto del nostro tempo. Per il liberalismo razionalistico, abbiamo bisogno solo di regole comuni che presiedano al traffico sociale e ogni richiamo (in qualche modo vincolante) alle radici e alle ‘identità storiche è un attentato alla libertà e alla dignità dei cittadini uti singuli :”noi dovremmo essere tutto ciò che i fondamentalisti odiano” come scrive Battista. (anche a costo, aggiungo io, di mollare ogni ormeggio con la tradizione, diventando, per contro,” tutto ciò che i fondamentalisti disprezzano”).
Per il liberalismo comunitario, l’integrazione politica dei nuovi arrivati non può fare a meno dell’integrazione culturale, giacché la libertà è sempre la libertà di una comunità politica concreta e le istituzioni vivono se radicate nei ‘costumi’ (i moeurs di cui parlava Alexis de Tocqueville), se sono in armonia con un territorio, con la sua storia, con le sue culture. E’ l’assimilazione non coatta, l’orgoglio della nuova appartenenza, la coscienza dei diritti che essa comporta, il fondamento delle libertà ‘reale’. In questa ottica, lo stato non può rinunciare ad essere ‘stato nazionale’ mentre, nell’altra, è sufficiente che sia ‘stato’ e basta, ovvero un contenitore imparziale delle diversità costrette a convivere anche se divise da irriducibili visioni del mondo. Che non è certo il ritorno allo ‘stato moderno’ che poteva contare su una società civile omogenea, non dilacerata da conflitti religiosi o d’altra natura ( giacché, quando questi conflitti divenivano insostenibili, gli stati si rimodellavano sulla base del principio: ‘Cuius regio eius religio–di chi [è] la regione, di lui [sia] la religione– sancito dalla Pace di Augusta del 1555)
Samuel P. Huntington aveva ammonito:”Un’America multiculturale diventerà, con il tempo, un’America multi-credo in cui i gruppi rappresentativi delle diverse culture adotteranno valori politici e principi distintivi, radicati nella rispettiva cultura di appartenenza”. Non è quanto sta accadendo in Europa? La sfida epocale del nostro secolo è questa: il passaggio dall’età in cui “i lavoratori non hanno patria”—come si legge a conclusione del Manifesto del Partito Comunista di Marx ed Engels– all’età in cui sono i borghesi, divenuti cittadini del mondo, a non avere più patria. Sono stati i borghesi (e i loro intellettuali) ad aver costruito le nazioni: ora che lo stato nazionale non è più, come pensavano i fondatori del socialismo scientifico, il loro ‘comitato d’affari’, la loro creatura sembra essere diventata, come aveva intuito il genio di Giuseppe Mazzini, l’ultima protezione per quanti, non avendo risorse da far valere sul mercato planetario, non sanno più ormai a quale santo rivolgersi. Paradossalmente, i piani bassi della piramide sociale—a partire dagli operai—sperimentano la verità contenuta nei Doveri dell’uomo :“Senza patria, voi non avete nome, né segno, ne voto, né diritti, né battesimo di fratelli tra i popoli. Siete i bastardi dell’umanità. Soldati senza bandiera, israeliti delle nazioni, voi non otterrete fede né protezione: non avrete mallevadori”. L’edificio sempre più abbandonato dello stato nazionale è diventato il rifugio, forse illusorio, di quanti ne erano rimasti fuori all’atto della sua fondazione e ne parlavano come “la patria di lorsignori”.
Etichettare come Destra Nevrastenica chi si preoccupa del destino che incombe sulle nostre società, sempre più erose dalla globalizzazione, significa solo gettare benzina sul fuoco della guerra civile e, quel che è peggio, rifiutare la difesa di valori che dovrebbero essere di tutti.