Rossana Veneziano
Emergere dall’impossibile ovvero il rischio della libertà (1)
Questo tempo non è in grado di migliorarci se non a ritroso, per disaccordo piuttosto che per accordo, per differenza piuttosto che per somiglianza.
Michel de Montaigne, Saggi
I più grandi disastri, e di conseguenza i più grandi tormenti, possono venire preparati nel silenzio di uno studio.
Charles Péguy, Argent suite
Quando ero giovane, iniziai la carriera di docente con entusiasmo e fiducia nell’alto compito, che mi sembrava quello di comunicare il sapere disciplinare trasmettendo la mia passione agli studenti e alle studentesse, accendendo le loro menti. Pensavo che tutto ciò avrebbe potuto favorire quella conversazione tra i grandi del pensiero e le giovani generazioni, che rappresenta per le discipline umanistiche una forma di trasmissione di tradizioni, di conoscenze, l’architrave della tenuta sociale e storica di una comunità nonché del suo costruttivo e migliore rinnovamento.
Più andavo avanti negli anni, più mi accorgevo con stupore prima, con amarezza poi, che la scuola italiana era impegnata e assorbita in altri compiti.
La scuola della progettazione, della programmazione, con le parole d’ordine di un “pedagogese” sempre più astratto e distante dalla vita scolastica reale, gettò nello sconforto la scrivente. Sin dagli esordi, i corsi di formazione insistevano giustamente sul recupero degli studenti in difficoltà. Nessuna parola, però, era proferita sulla valorizzazione del merito, degli studenti meritevoli: ricordo che ad una mia domanda sulla questione seguì nell’uditorio il silenzio anche un poco imbarazzato del formatore. Non ci avevano pensato, alla valorizzazione del merito!
E allora cominciai a interrogarmi più seriamente. Com’era possibile che la scuola italiana avesse rinunciato al suo compito peculiare? Com’era possibile che le più varie e disparate “educazioni” (al benessere, all’affettività, alla legalità…e via dicendo) avessero col tempo inesorabilmente sostituito il lavoro in classe del docente, la fondamentale relazione educativa docente-allievo in un “ampliamento dell’offerta formativa” sempre più caotico e disordinato? Non era più il luogo deputato all’apprendimento delle conoscenze delle discipline, dalla matematica alla storia, all’inglese e così via? Mi accorsi, via via, che la scuola stava diventando qualcosa di differente: un luogo di assistenza sociale, di welfare per le famiglie, un centro benessere senza spa, una clinica per il disagio piuttosto che un luogo di vita attiva, di relazioni sociali costruttive finalizzate alla creazione di una comunità educante. Essa appariva desiderosa in primis di coccolare i suoi utenti (e gli stakeholders) sempre più esigenti e riottosi, pronti a scegliere altri istituti, se le attese di una promozione facile e indolore per i figli fossero state disattese. E ancora, com’era possibile il silenzio della componente docente, un silenzio che col tempo è divenuto assordante, un silenzio che oggi manifesta lo scollamento definitivo della categoria dalla partecipazione alle decisioni sulla vita della scuola?(2)
Ho ragionato sulle cause, molte e complesse, la cui trattazione esula dal contesto e dalle finalità di questa lettera. Nel rinviare ad alcuni rilevanti studi di settore, ai quali farò anche riferimento (3), nel corso degli anni partendo da una prospettiva maturata sul campo, concreta e realistica, ho maturato qualche riflessione.
Il sistema scolastico italiano, nel secondo dopoguerra, è stato investito da un ripensamento generale nella sua impostazione didattico-formativa. L’Italia, tra gli altri contesti europei, risulta più esposta ad una ripresa passiva e decontestualizzata di alcune esperienze pedagogiche, anche extraeuropee. La ricezione acritica di un certo attivismo, ad esempio, quello di Dewey e affini, porta inevitabilmente a snaturare il complesso dell’istruzione italiana. Concetti e paradigmi pedagogico-didattici sulla democratizzazione, sul rilievo di alcune non meglio identificate “esperienze”, sulla necessità dell’apertura alla società della scuola italiana vengono recepiti senza filtri. Della vecchia scuola classista (alla quale giustamente si vuole contrapporre l’idea di una scuola aperta ed accessibile a tutti, senza distinzione di classe o di censo), si cancella ogni aspetto in una furia iconoclasta che raggiunge il suo apice, una volta abbattutasi anche in Italia la rivoluzione antiautoritaria, non direttiva e libertaria del ‘68.
L’Italia recepisce questi sussulti sessantottini in tutta la loro radicalità senza operare alcun aggiustamento sugli usi e sulle prassi didattiche anche eccellenti in essere, vanto dei percorsi liceali. L’antiretorica, ad esempio, contro una certa didattica della storia, la lotta contro il merito individuale in un appiattimento forsennato verso il basso, l’idea di una scuola facilitatrice, tanto più accogliente quanto più lontana dalla selezione e dalla differenziazione dei talenti, clemente con tutti (anche con coloro che decidono di non studiare nella loro libertà connaturata al rischio educativo), il “mantra” del “successo formativo” che si traduce nella promozione generalizzata per tutti, la centralità dello studente che si concretizza nella rinuncia alla relazione asimmetrica educativa in nome di una supposta uguaglianza amicale e diretta dei rapporti tra docenti-studenti, tutti questi elementi minano alla base le fondamenta e i fondamenti pedagogico-didattici della scuola italiana.
La democratizzazione diventa apertura a qualsiasi accesso universitario, indipendentemente dalle conoscenze e dalla preparazione culturale, con conseguente abbassamento dei livelli anche nel mondo accademico; la relazione deweyana scuola-società ha significato l’appiattimento sulla società della scuola, che rincorre i bisogni e le esigenze sociali, smarrendo e dimenticando il suo compito peculiare (ecco allora il ricorso agli esperti esterni, l’apertura al territorio, rincorsa che vede sempre la scuola perdente, indietro); la lotta alla scuola classista diventa la giustificazione per un lassismo buonista che, come “in una notte in cui tutte le vacche sono nere”, annulla le differenze individuali, scoraggia i meritevoli che non sono invogliati ad impegnarsi di più, abbassandosi il livello generale; la promozione assicurata crea una disparità di fatto tra chi avrà le possibilità economiche per acquisire una solida istruzione e tra chi, uscito dal percorso scolastico, si troverà con un diploma che dovrebbe certificare delle conoscenze e delle competenze che non si possiedono.
La drastica selezione successiva, quella del mondo del lavoro, riserverà poi a quei tanti giovani non qualificati e preparati lavori non consoni al loro percorso di studi, con conseguente frustrazione giovanile; nel contempo la formazione tecnico-professionale non viene potenziata, così che molti posti di lavoro del settore produttivo-imprenditoriale, decisivo per il Paese, restano vacanti.
Altre due tappe hanno contribuito a delineare lo scenario attuale: i decreti delegati, con l’apertura ai soggetti esterni, dalle famiglie ad altri enti e l’introduzione della scuola dell’autonomia con la “buona scuola” poi (4) ; quest’ultima ha significato nel concreto mettere le scuole in competizione, trasformando di fatto il Preside, che era parte collaborante con il corpo docente, in un manager-datore di lavoro, sempre più volto alla gestione amministrativa e soprattutto, negli ultimi anni, a quella politico-difensiva verso ricorsi intentati in genere dalle famiglie, contro le decisioni dei consigli di classe dei docenti, dei quali ormai non si riconoscono l’autorevolezza e il ruolo specifico.
L’ultima parola d’ordine è quella delle competenze, che taumaturgicamente dovrebbero risolvere e appianare tutti i problemi scolastici: saper fare contro il sapere disinteressato delle materie umanistiche, ad esempio; competenze contro contenuti e saperi disciplinari, dimenticando in questa nullificazione di valori, di tradizioni storiche plurisecolari se non millenarie che leggere, conoscere e meditare un passo della Divina Commedia sotto la guida di un Maestro implica l’attivazione di competenze-conoscenze innumerevoli, educa alla conoscenza di sé ed al rispetto della libertà altrui molto più di qualsivoglia competenza svincolata dai saperi, connessa alla vuota chiacchiera delle variopinte e sovente inconcludenti educazioni di cui sopra.
Due le conseguenze evidenti della deriva attuale, dall’emergenza linguistica (per la scarsa conoscenza e l’uso maldestro della lingua italiana) a quella storica (5) (si noti il paradosso nella scuola secondaria della scarsità dei debiti assegnati in tali discipline a fine anno scolastico), in un cupio dissolvi nichilistico-relativistico, al quale come non imputare la causa di tanto disagio giovanile (6).
Alla fine del mio percorso scolastico e lavorativo, dopo anni spesi nelle aule tra gli studenti e le studentesse, che a volte mi rincuorano con il loro grazie per l’educazione-istruzione ricevuta e rielaborata autonomamente con sforzo e in libertà, mi accorgo di aver eluso quell’ultima domanda spinosa: perché noi docenti (in tanti) non abbiamo reagito.
La risposta meriterebbe altro spazio. Il fatto che alcuni insegnanti comincino a levare la voce, a formulare un giudizio critico su quanto accaduto, pare un segnale positivo nella morta gora del dibattito critico sull’istituzione scolastica. Con l’ottimismo della volontà, sembra di poter dire che l’aria sia nuova, cambiata; le decisioni del Ministro Valditara coraggiosamente muovono nella direzione giusta.
Il pessimismo della ragione, però, mi induce a pensare che oltre cinquant’anni di navigazione nella direzione descritta sono difficili da riformare: un compito arduo ma non impossibile per emergere dall’impossibile, assumendo il rischio della libertà.
A noi, navigatori della conoscenza e appassionati di questo lavoro, tra i più importanti e decisivi per il destino di un Paese, a coloro che in tutti questi anni hanno resistito nonostante tutto, nei collegi docenti, durante gli scrutini, opponendosi allo spirito del tempo, non resta che un’ultima sfida: coltivare la speranza nel giardino del sapere che è la scuola, un giardino che se coltivato è spesso in grado di rendere ognuno di noi, in gioventù e in vecchiaia, da adulti e da adolescenti, una persona migliore.
1 L’espressione «emersione dall’impossibile» è in Rachel Bespaloff, Su Heidegger. Lettera a Daniel Halévy in Id., L’eternità nell’istante. Gli anni francesi (1932-1942), Prefazione di Monique Jutrin, a cura di Cristina Guarnieri e Laura Sanò, Castelvecchi, Roma 2022, vol. I, p. 161, corsivo nel testo. Entrambe le citazioni qui in esergo sono tratte dal volume sempre di R. Bespaloff, La sfida della libertà. Gli anni americani (1943-1949), a cura di Claude Cazalé Bérard, Cristina Guarnieri e Laura Sanò, Castelvecchi, Roma 2024, vol. II; rispettivamente la prima è a p. 257, la seconda a p. 95.
2 Si noti che coloro che si sono occupati della problematica da un punto di vista teorico provengono in prevalenza dal mondo accademico. I docenti della scuola dell’obbligo e dell’istruzione secondaria restano in silenzio o inascoltati, anche in questo caso.
3 Cfr. il recente saggio di Giuseppe Valditara, La scuola dei talenti, Piemme, Milano 2024. Ancora Ernesto Galli della Loggia, Loredana Perla, Insegnare l’Italia. Una proposta per la scuola dell’obbligo, Morcelliana, Brescia 2023; E. Galli della Loggia, L’aula vuota. Come l’Italia ha distrutto la sua scuola, Marsilio, Venezia 2023; Luca Ricolfi, La rivoluzione del merito, Rizzoli, Milano 2023.
4 Cfr. in proposito la “legge di Hume”, negletta e dimenticata, che distingue tra ciò che è e ciò che deve essere. La scuola, non buona o cattiva, è scuola; altrimenti semplicemente non è.
5 Nel corso dei decenni, ho constatato come alcuni personaggi storici importanti della nostra storia nazionale, ad esempio i protagonisti del Risorgimento, siano oramai lettera morta. Si arriva sui banchi liceali e della secondaria, in generale, accompagnati da una ignoranza impensabile anni fa. La storia, la cenerentola nel curricolo della secondaria, ha visto diminuire il numero di ore, da tre a due, decisione che non ha coinvolto nel passato noi docenti, la maggioranza silenziosa, impegnati dalle elementari alla secondaria nel nostro compito formativo. Cfr. L. Perla, E. Galli della Loggia, Insegnare l’Italia. Una proposta per la scuola dell’obbligo, op. cit. Se non sappiamo da dove proveniamo, non sappiamo chi siamo e dove andare. Non si può, ha scritto un filosofo, «recidere col coltello il legame con la storia».
6 Cfr. Costantino Esposito, Il nichilismo del nostro tempo. Una cronaca, Carocci, Roma 2021.