La guerra dell’intelligenza artificiale e il nuovo sistema mondiale delle potenze

Eugenio Capozzi

Lo scompiglio suscitato nel settore hi tech mondiale dall’emergere improvviso della nuova piattaforma di intelligenza artificiale cinese Deepseek è un chiaro indicatore di quale sia l’assetto di potere economico e politico del mondo in questa fase storica, e di quali linee di conflitto si profilino in esso nel prossimo futuro. Esso ci aiuta anche, parimenti, a comprendere meglio, al di là di interessate generalizzazioni, il contesto nel quale si inserisce la leadership politica degli Stati Uniti con l’inizio del secondo mandato presidenziale di Donald Trump.

La competizione senza quartiere nello sviluppo dell’AI, così come quella  sulle materie prime legate all’industria hi tech (metallli rari, semiconduttori) e quella relativa alla nuova corsa allo spazio, contribuisce infatti a definire il quadro di un mondo ormai sostanzialmente post-globale, in cui la potente spinta all’integrazione mondiale di mercati, produzione e distribuzione cominciata alla fine della guerra fredda si è esaurita, così come l’egemonia globale occidentale, lasciando il campo a un quadro multipolare e tendenzialmente conflittuale tra potenze.

Paradossalmente, la vittoria totale dell’Occidente capitalista e liberaldemocratico sul comunismo sovietico, innescando la corsa all’integrazione economica, tecnologica, della comunicazione che abbiamo cominciato qualche anno dopo a chiamare “globalizzazione”, ha prodotto una serie di dinamiche che hanno indebolito l’Occidente stesso, creando per esso dei competitori temibili, sempre più determinati e sempre meno animati da soggezione nei suoi confronti.

La concorrenza della produzione industriale di molti paesi asiatici, Cina in testa – dovuta alla rincorsa tra contraffazione ed emulazione, alla manodopera a basso costo, alla struttura gerarchica e spesso autoritaria di quelle società – ha sconvolto il settore manufatturiero dei paesi dove l’economia di mercato era nata e si era diffusa dalla rivoluzione industriale in poi. La delocalizzazione della produzione negli stessi paesi concorrenti, che le imprese hanno promosso per reggere l’urto di quella concorrenza, insieme alla disintermediazione prodotta dalla rivoluzione digitale ha desertificato il lavoro operaio/impiegatizio e il terziario, producendo nei paesi occidentali una gigantesca frattura sociale tra élites inserite nel mercato globale e “popolo” impoverito, emarginato, senza prospettive di migliorare il proprio status. La corsa al credito facile per stimolare i consumi depressi da questo terremoto socio-economico ha prodotto la grande crisi bancaria e la grande recessione del 2008. L’immigrazione incontrollata favorita dai dogmi del multiculturalismo ha generato una colossale guerra tra poveri determinata dalla spinta al ribasso dei salari, un’impennata della violenza e dell’insicurezza, l’infiltrazione dell’integralismo islamista.

Il mondo globalizzato è dunque rapidamente diventato non più unito, ma molto più diviso. Lo scontento profondo diffuso in Occidente ha generato la reazione politica antielitaria del sovranismo/populismo. La crescita impetuosa dei paesi non occidentali si è tradotta nelle loro classi dirigenti in quelli che Samuel Huntington aveva chiamato “processi di indigenizzazione”: la rivendicazione orgogliosa della loro alterità e specificità, e la ricongiunzione alle loro radici di civiltà in uno spirito contrappositivo.

Dagli anni Dieci in avanti, si è messo così in moto un processo di decostruzione e destrutturazione della globalizzazione, con la tendenza a  un nuovo bipolarismo tra l’Occidente e “gli altri”, ma in un quadro composito e diseguale.

Tra le caratteristiche strutturali di questo processo c’è il tentativo da parte di ogni potenza di privilegiare gli interessi nazionali, di riprendere il controllo delle proprie risorse vitali, di scomporre le “catene di approvvigionamento” in segmenti più limitati e controllabili all’interno delle proprie sfere di influenza e alleanze, di acquisire una superiorità strategica decisiva nelle tecnologie di punta che determineranno probabilmente la supremazia nell’economia del futuro.

La nuova vittoria di Donald Trump nelle elezioni presidenziali del 2024, la  sua piattaforma programmatica, il suo approccio assertivo alla politica internazionale devono essere interpretati come logica “risposta a sfida” di una potenza non più egemone sul mondo, ma ancora vitale e reattiva, come gli Stati Uniti rispetto a tale mutato contesto. La ripresa del controllo dell’area di potenza vitale (il continente americano), il contrasto all’espansione dell’influenza cinese nel mondo, l’obiettivo di far ritornare gli Usa un paese manifatturiero mediante il protezionismo e la deregulation, il contrasto deciso all’immigrazione illegale per favorire l’occupazione e i salari, l’investimento di risorse pubbliche nel settore militare e aerospaziale (il progetto di iron dome americano ricalca quello dello “scudo spaziale” di Reagan), l’abbandono dell’ideologia green in favore della ricerca della massima produzione di energie fossili e nucleare, la chiamata a raccolta dei giganti dell’hi tech, trainati da Elon Musk, per “fare sistema” nella contesa del nuovo “balzo in avanti” digitale (l’investimento nel progetto Stargate) sono tutti tasselli di questo grande mosaico.

E dunque la nuova concorrenza al ribasso cinese operata con Deepsake (anche attraverso il plagio dei contenuti di ChatGpt e OpenAI) è l’altra faccia, ovvia, di questa medaglia. Ma questa volta la “guerra di corsa” di Pechino non sarà certo accolta con condiscendenza dagli Stati Uniti, come nell’epoca clintoniana, in cui gli americani speravano nell’apertura del grande mercato dell’Impero di mezzo ai prodotti occidentali. In risposta a essa si profila, invece, una serratissima contesa tecnologica e commerciale. La nuova guerra fredda, bi- o multipolare che sia, e il nuovo sistema di potenze passano attraverso sfide come queste.

Chi – nella classe dirigente dell’Unione europea – non comprende che il vecchio continente in questo contesto si trova drammaticamente arretrato, e si straccia le vesti per una presunta deriva autoritaria della “tecnodestra” americana, cercando di accrescere ulteriormente il grado di dirigismo e iper-regolamentazione e insistendo nella follia ideologica della decarbonizzazione integrale, sta candidando l’Europa a rimanere il fanalino di coda del mondo industrializzato: non più protagonista ma oggetto imbelle di conquista dei giganti in competizione.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *