Gianluigi De Vito, Phd student in Teaching and learning sciences, Università di Bari
Perché Sanremo è Sanremo. Pardon. Quella era roba di ieri l’altro. La musica è cambiata. Tutta-l’Italia-Tutta-l’Italia-Tutta l’Italia (leggi: testo dalla canzone di Gabry Ponte). Già. Italia: prima, durante e dopo il Festival che, all’anagrafe degli eventi culturali di patria, risulta aver spento 75 candeline. Mica poco, se si considera che cinque giorni difilato sono il due per cento di un anno. E che moltiplicata la percentuale per 75 anni, il risultato fa quasi un anno e mezzo di Storia trascorsa a fare i conti con un appuntamento non di sole canzonette. Una pagina di costume & società che di fatto ha sempre spaccato il Paese su quale Italia esca dalle canzonette: un’italietta di stornelli mielosi e scontati o un’italiona del «bello» musicale che diventa identità? Chi ha la risposta univoca, batta un colpo.
Forse è da qui che bisognerebbe partire. Dal fatto che ogni giudizio andrebbe sospeso senza sgraffignare battute sensazionali e posizioni sovversive. Eppure ogni volta non c’è pace. La battaglia 2025 ripete la disputa. I «ghibellini» tuonano contro l’era del (Carlo) Conti II, sott’accusa per anestetizzare e confinare nel sottoscala – Benigni a parte – polemiche al regime editoriale e stravaganze d’autore alla David Bowie, Elton John e Madonna, preferendo quei Duran Duran che 40 anni fa facevano levare un saluto romano a chi accompagnava le parole di Wild Boys. I «guelfi», di contro, esultano per il rispetto di un copione che non squarcia il velo della calma e della maggioranza al potere, ma che evita scene come quelle 2024 di Achille Lauro vestito da gallina che calpesta il tricolore (citazione dell’eurodeputato leghista Roberto Vannacci). Da una parte, i ghibellini che avrebbero voluto un Sanremo come quello del 1984, quando gli operai dell’Italsider di Genova salirono sul palco baudiano del Teatro Ariston per opporsi al piano di licenziamenti dell’azienda. E dall’altra, i guelfi sostenitori di quel vintage pensato per far tornare indietro le lancette dell’orologio anche nel modo di affrontare certi argomenti e plaudire alla «storica» Zanicchi, a Venditti ed ad altri big. Risultato? Non l’avresti mai detto: degli italiani solitamente davanti alla tv, il festival giudicato camomilla ne ha inchiodati sette su dieci. Di più: ha sfondato nella fascia 18-24 anni. Vorrà dire pure qualcosa, questo dato? O i Tutti-pazzi-per Sanremo sono lanzichenecchi da confinare e la generazione spotify è tutta di bamboccioni che contano solo quando c’è da costruire retoriche e libri?
Certo, la concorrenza «spenta» ha evitato che ci fossero duelli di tubi catodici di reti diverse, ma il Conti II non è poi vero che abbia celebrato solo una liturgia noiosa di cuoricini-mamma-amore senza bollicine.
Capitolo «bambini prodigio». Tra gli ospiti dell’anestesista Conti II, Samuele Parodi, 11 anni, catenese, tuttologo del Festival di ieri e oggi; Alessandro Gervasi, trapanese, 6 anni, orecchio assoluto, pianista da quando anni ne aveva tre (recita nella fiction tv su Peppino Di Capri); i Twins Violins, Mirko e Valerio Lucia, 17enni gemelli agrigentini, maghi del violino. Sicilia-Italia, che male c’è a spettacolizzare i baby-talento di casa nostra?
Capitolo «mamma». Paragrafi: «cura», «donne», «disabilità mentale». Simone Cristicchi dedica la sua Quando sarai piccola alla madre malata di Alzheimer e fa concerti in chiesa. I detrattori: operazione di marketing religioso, ostensione forzata del dolore di un cantante tutto Dio-padre-famiglia che ha scritto un musical sulle foibe ed espresso contrarietà per l’utero in affitto. No, elogio del misticismo, come il Battiato de La Cura. In ogni caso: Italia commossa più che indignata, per un testo che scartavetra la vita di milioni di persone che hanno un malato di Alzheimer in famiglia e chiama a fare i conti con la vecchiaia o la malattia di un genitore. Quando sarai piccola, è semplicemente una bella canzone, per tutti: destra/sinistra, cattolici/laici, conservatori/progressisti. Punto e basta.
Dario D’Ambrosi «buca» lo schermo sul palco dell’«Ariston» con i suoi protagonisti del «Teatro Patologico» fatto di attori con disagio mentale: «L’inclusione abbatte le barriere. Aiutiamo tantissimi ragazzi e così diamo speranza a milioni di famiglie perché quando sta bene un ragazzo disabile stanno bene mamme, papà, fratelli, nonni, condomini, quartieri». E che male c’è a spettacolizzare l’Italia che struttura una compagnia teatrale di «patologici» – peraltro lo fa anche con i canali dell’università di Tor Vergata – in un Paese che conta quasi 13milioni e mezzo di disagiati psichici, vale a dire una famiglia su due?
Fedez parla di depressione. Funziona. Ci provano le giovani ribelli a portare istanze femministe: bocciate dal televoto a favore dei ragazzi inquieti che si specchiano nei dolori giovanili. E allora? È questo lo spirito del tempo dell’Italia post carogna-virus. E non è vero che argomenti pop e global siano mancati. Miss (Italia) Miriam Leone spiega che una donna non è solo una cosa o l’altra, che i ruoli non definiscono le donne: è la risposta a chi le chiede della sua interpretazione tv di Oriana Fallaci. Noa e Mira Award scelgono Imagine di John Lennon per chiosare: «Una canzone non può salvare il mondo, ma le persone possono farlo». Top model Bianca Balti (Cococo ovvero co-conduttrice di Conti) inietta ottimismo, eleganza e gentilezza («Con la gentilezza si può scuotere il mondo», sosteneva Gandhi): la vita merita di essere celebrata anche quando si è terremotati dal cancro.
Ammettiamolo. Tra bambini prodigio, mammoni addolorati e inquieti e comici col bavaglio, Conti ha fatto il pieno dell’Italia tradizionalmente televisiva e buonista (meglio buonisti che malisti, no?).
Nessuna sorpresa se a trionfare sia un 23enne laureato alla Statale di Milano in Economia e management: Olly, al secolo Federico Olivieri, ex trap che ha fatto lezione ai detenuti, porta sul palco la Balorda nostalgia della sua Genova di Piazza delle Erbe e dei vicoli a gomito, sotto uno sfondo integratore cantautorale fatto di Bindi, Paoli, Fossati, De André. E se non è anche questa identità italiana, cosa lo è?
Saranno pure solo canzonette, ma sono anch’esse patrimonio artistico e culturale. Sono bellezza. E il bello, come è stato opportunamente detto, ha il «potere di ricongiungerci alla verità e al bene». Ha il potere di «creare un’identità sociale», di «migliorare la vita personale e collettiva». Come dire: piaccia o no, l’Italia della canzone produce valore pubblico.