Mario Rusconi, preside liceo Pio IX, Roma e Roberto Ingravalle, docente di inglese e psicologo
Noi tutti abbiamo imparato a camminare, correre, saltare, parlare, leggere e scrivere commettendo degli errori e proprio grazie agli errori commessi abbiamo potuto raddrizzare il tiro e impadronirci con una certa competenza di queste attività. I tentativi per prove ed errori sono comuni sia nel regno animale che nell’uomo. Si tenta, si sbaglia, ci si corregge e si apprende attraverso tentativi, a volte, maldestri. L’errore riveste nel processo educativo un ruolo fondamentale perché riuscire a comprenderlo permette di imparare attraverso esso.
Fu grazie a pedagogisti come Maria Montessori, Célestin Freinet e Bruner che, osservando il mondo bambino, l’errore iniziò ad assumere la giusta importanza in campo didattico-educativo. Così, se fino alla metà del secolo scorso l’errore era considerato un male da eliminare, lentamente si giunse a rivalutarne l’importanza. La pedagogia dell’errore è una corrente di pensiero che nasce alla metà del secolo scorso e che viene formulata grazie a due pensatori, Karl Popper ed Henry Perkinson. Karl Popper, nel suo lavoro Conjectures and refutations. The Growth of ScientificKnowledge (1962), espone la sua idea sull’importanza dell’errore in tutti i campi del sapere umano, in modo particolare in quello scientifico. L’errore per Popper è un fatto positivo poiché costituisce un’esperienza attraverso la quale l’uomo forma la sua personalità e perviene alle soluzioni dei suoi problemi.
È così che oggi possiamo cominciare a parlare di pedagogia dell’errore, che può rendere lo studente partecipe e consapevole dei propri processi mentali per condurlo, attraverso prove ed errori, ad acquisire una maggiore fiducia nelle proprie capacità e, al contempo, a non temere il fallimento, anzi a sviluppare il proprio talento ed a trasformare i propri desideri in obiettivi raggiungibili.
Perkinson, nel suo testo del 1971 The Possibilities of error, afferma l’importanza di inserire l’errore nel processo di insegnamento e di apprendimento perché coinvolge la relazione insegnante-studente nella gestione del processo mentale che ha condotto all’errore.
Tutti gli studenti commettono errori e, se non hanno disturbi specifici dell’apprendimento, in qualche modo riescono a comprenderli e a non ripeterli, seppur consapevoli che ne commetteranno altri e che il processo si ripeterà per tutto il percorso scolastico. Diversa è la situazione per studenti con DSA (Disturbi Specifici dell’Apprendimento).
Prendendo ad esempio uno studente con dislessia i suoi errori nella lettura e nella comprensione di un testo, soprattutto se di tipo informativo, non derivano da disattenzione o superficialità, bensì da un processo legato alle funzioni esecutive superiori che rende difficile la percezione delle lettere che si trovano all’interno di un termine; di conseguenza commettono molti errori nella lettura. È ovvio che per questi studenti risulta difficile ragionare sul processo mentale che ha condotto all’errore. Non perché non lo capiscano – al contrario, sono molto consapevoli di questo –, ma di nuovo, davanti ad altre pagine da leggere, si trovano a ripetere gli errori perché leggono ciò che percepiscono. La loro mente, di conseguenza, anticipa il fallimento, rafforzando la convinzione di non potercela fare, al punto che, di fallimento in fallimento, cade la motivazione.
Lo studente interagisce costantemente con l’insegnante, dal quale si aspetta aiuto e comprensione. Se l’insegnante non è coinvolto emotivamente, però, questo viene percepito dallo studente e l’azione didattica sarà fallimentare. La trascuratezza emozionale spegne l’empatia. Come può essere credibile un insegnante se lo studente non si sente visto e non percepito nel suo disagio? Sono questi i momenti che possono trasformare un’azione didattica in apprendimento. Non si tratta di tecniche e strumenti utili, si tratta di aprire un varco verso la fiducia nella scuola come ambiente di apprendimento.
Dalla dislessia non si guarisce. La dislessia si compensa. Si accetta, cioè, l’errore per lungo tempo con l’obiettivo di supportare il raggiungimento della competenza. È necessario cambiare ottica ed essere più flessibili. Non bisogna, comunque, rinunciare a proporre esercizi specifici per tentare di correggere i singoli meccanismi, ma questi esercizi non possono essere l’unica proposta.
Il traguardo, forse, più importante al di là del raggiungimento della competenza, è quello di rendere lo studente partecipe e consapevole dei propri processi mentali, per condurlo, attraverso prove ed errori, ad acquisire una maggiore fiducia nelle proprie capacità e, al contempo non temere il fallimento. Ci sono momenti nella prassi didattica che possono essere illuminanti. Uno di questi è il momento della valutazione perché è quello che permette sia allo studente che all’insegnante di crescere insieme. In questo, la «[…] valutazione assume una preminente funzione formativa, di accompagnamento dei processi di apprendimento e di stimolo al miglioramento continuo […] promuove l’autovalutazione di ciascuno in relazione alle acquisizioni di conoscenze, abilità e competenze […] Perrenoud definisce la valutazione realmente formativa come quella che permette di conoscere meglio l’alunno (pedagogia differenziata) al fine di aiutarlo meglio».
La valutazione degli apprendimenti deve diventare una grande occasione di cambiamento per gli insegnanti di ogni ordine e grado. È ciò che dovrebbe spingere a chiedersi: “Cosa o chi valuto?”.
Valutare l’apprendimento significa ricavare quelle informazioni necessarie per adattare l’insegnamento ai bisogni educativi concreti degli alunni e ai loro stili di apprendimento. Il principio guida della valutazione è il progresso dell’alunno in rapporto alle sue potenzialità ma dovremmo anche imparare a chiederci se i nostri atteggiamenti, le nostre azioni, le nostre parole durante l’azione didattica sono sempre andate verso la creazione di quel clima di fiducia che è essenziale al raggiungimento di un obiettivo.
I Disturbi Specifici dell’Apprendimento sono ancora ignorati dai più, per cui è necessaria una forte campagna di sensibilizzazione che vada ben oltre la mera accettazione delle certificazioni che danno solo avvio alla possibilità di ottenere strumenti dispensativi e compensativi. Nella prassi didattica, soprattutto con studenti con DSA, non si può prescindere dalle emozioni che percepiscono quotidianamente a scuola: «non c’è nessun atto della vita cognitiva che non attivi un circuito emotivo». Dunque, un insegnante empatico è un insegnante alleato che lavorando, anzi, collaborando con lo studente dislessico può riuscire a trasformare il dolore di fallire nella speranza di imparare.