Claudio Marazzini, Presidente Onorario dell’Accademia della Crusca
La lingua è prima di tutto parlata, anzi il parlato gode di priorità agli occhi di molti linguisti. La lingua italiana corrisponde in maniera abbastanza fedele alla scrittura: questo ci è sempre sembrato uno dei suoi pregi, che condivide con lo spagnolo. Tale corrispondenza non è assoluta. In qualche caso occorrono più grafemi per un medesimo fonema: si pensi a ch (chiesa) rispetto a c (cane) per l’occlusiva velare sorda. Tuttavia l’italiano, da questo punto di vista, è più funzionale di altre lingue, come il francese o l’inglese, in cui la grafia è governata da un’eredità etimologica che l’allontana dalla pronuncia. Il rapporto tra scrittura e parola, per tutte le lingue, è comunque fissato da una tradizione consolidata nei secoli, che non può essere infranta a piacere. Segni grafici che non abbiano una corrispondenza nel parlato, introdotti artificiosamente per decisione minoritaria di singoli gruppi, per quanto dettati da buone intenzioni, servono soprattutto a creare problemi, confusione, oscurità. Inoltre le rivoluzioni ortografiche inventate da singoli riformatori, nell’italiano, hanno avuto sempre poca fortuna: così è accaduto nel Cinquecento con la riforma di Trissino, assolutamente priva di conseguenze pratiche.
Oggi dobbiamo fare i conti con la riforma proposta (talora persino imposta, come in certi regolamenti interni di atenei italiani) dai sostenitori di asterisco e schwa. A nostro parere, però, va escluso tassativamente l’asterisco al posto delle desinenze dotate di valore morfologico («Car* amic, tutt quell* che riceveranno questo messaggio…»). Lo stesso vale per lo scevà o schwa, l’ǝ dell’alfabeto fonetico internazionale, non presente in italiano, pur utilizzato in maniera naturale in alcuni dialetti della Penisola (nei quali peraltro – a differenza di quanto accade immettendolo artificialmente e forzosamente in italiano – non compromette sistematicamente la distinzione di genere tra maschile e femminile, così come quella di numero, tra singolare e plurale).
L’asterisco è stato usato da molti scrittori per indicare un’omissione volontaria precauzionale, in forma di reticenza: si incontra ad esempio nei Promessi Sposi, per celare il nome del paese di Renzo e Lucia o il casato dell’Innominato. Ora alcuni vogliono usarlo in fine di parola per “neutralizzare” il genere grammaticale: abbiamo così forme come car* tutt, adoperate a volte anche nelle mail istituzionali da persone che così ritengono, ingenuamente, di aver compiuto un scelta di civiltà, e di essere al sicuro da ogni critica. In realtà così non si risolve nulla. Semplicemente si crea uno scritto che delega la soluzione del problema a chi legge. Chi legge, specialmente se legge ad alta voce, sarà costretto a stabilire che cosa si nasconde dietro l’asterisco: potrà per esempio tradurlo in un “cari tutti e care tutte”. In tal caso, tanto valeva far la fatica di scrivere subito la forma doppia, maschile e femminile, senza farsi prendere dalla pigrizia. L’asterisco è insomma una forma di reticenza che in maniera ipocrita lascia al lettore il compito di arrangiarsi. Nello stesso tempo, con l’asterisco si rompe il fondamentale rapporto tra la scrittura e la leggibilità, tra la scrittura e il parlato. Lo schwa, cioè il simbolo dell’Alfabeto Fonetico Internazionale (IPA) che rappresenta una vocale indistinta, ha la pretesa di essere “leggibile”. Dunque questa proposta sarebbe da preferire all’asterisco perché offrirebbe una soluzione valida anche per la lingua parlata. A nostro parere, invece, le cose non stanno così. Si tratta di una proposta ancora meno praticabile rispetto all’asterisco, anche lasciando da parte le difficoltà di lettura che potrebbe creare nei casi di dislessia. L’uso dello schwa non risolve neppure certe criticità che abbiamo già segnalato per l’asterisco. Intanto, come è stato osservato, non esiste un corrispondente maiuscolo1. Lo schwa fa sparire la differenza di numero, anche se esiste il segno di schwa plurale, senza differenze nella pronuncia rispetto al singolare: ɜ (ed è possibile la confusione con la cifra 3). L’asterisco e lo schwa, inoltre, vanificano gli sforzi condotti da anni per dare visibilità ai nomi femminili di professioni, come avvocata, architetta, veterinaria. Inoltre, negli ultimi anni le proposte di intervento linguistico artificioso si sono moltiplicate patologicamente. Molti, ignorando i meccanismi funzionali della lingua, hanno creduto di poter far progredire la propria riforma, come se la lingua non fosse uno strumento collettivo che si muove lentamente con il consenso della maggioranza. Chi oppone resistenza alle proposte di innovazione non di rado è stato oggetto di censure e accuse immotivate quanto disinvolte. Intanto le proposte si accavallano e sovrappongono caoticamente. Ci sono cose che si potrebbe dire perfettamente, come si fa da secoli, con il maschile non marcato: per es. “Salve a tutti”. Si potrebbe anche dire “salve a tutte e a tutti”, e questo non stravolge la lingua. Minoranze molto vivaci e aggressive (ognuna di esse aggrappata alla propria soluzione) chiedono di trasformare la frase precedente in “Salve a tutte” (un femminile riferito provocatoriamente anche agli uomini), oppure in “Salve a tutt”, o “Salve a tutt@”, o “Salve a tuttu”, o appunto “salve a tuttə”, con schwa (e allora il femminile non si vede più). Una vera babele che, prendendo le mosse dalla morfologia di sostantivi e aggettivi, si estende poi al sistema delle concordanze, ai pronomi, agli articoli e alle preposizioni. Così accadrebbe, se l’innovazione venisse davvero mantenuta dopo la formula dei saluti iniziali, svolgendo argomentazioni appena più complesse. Chi avanza queste richieste le giustifica non di rado come “esperimenti”. Ma gli esperimenti non si fanno nella lingua formale e ufficiale. Non si fanno nella comunicazione pubblica. Non si fanno nella lingua della pubblica amministrazione. Chi avanza queste proposte spesso ci spiega che non occorre usare sempre queste forme nuove, con coerenza, ma solo in certi casi, come segnale di cambiamento. Una specie di “inchino”, e poi si procede come si vuole, anche perché non si saprebbe fare altrimenti. Quasi che la comunicazione linguistica non avesse bisogno di coerenza. Quasi che le norme si potessero usare a volte sì e a volte no, a piacere, come fa comodo. Effettivamente, scrivere a lungo restando coerenti a questi espedienti risulta difficilissimo. Farlo, costa una grande fatica, che può essere spesa meglio cercando di argomentare in maniera chiara. Con la scusa dell’esperimento, si supera insomma la questione del rigore richiesto dalla comunicazione di qualità, che resta invece il vero impegno di chi crede nella scrittura e nella sua funzione.
1. Si veda l’ampia trattazione di Paolo D’Achille nel sito dell’Accademia della Crusca, a cui siamo debitori di alcuni degli argomenti qui utilizzati: https://accademiadellacrusca.it/it/consulenza/un-asterisco-sul-genere/4018.