Basta polemiche sterili: rispettare la lingua italiana non significa discriminare

Alberto Lorusso, Avvocato e Presidente di Verona Riparte

Sono un Liberale di fede indiscussa, un laico, un inclusivista.
Credo profondamente nella parità dei generi e nell’assenza di differenza tra le persone.
Ho espresso sincero rammarico per l’episodio che s’è consumato proprio nella mia città, Verona, di un ragazzino di 13 anni che s’è rifiutato di salire una scala i cui gradini erano stati dipinti con i colori dell’arcobaleno e su cui erano scritte parole come “empatia”, “inclusione”, “solidarietà”.
S’è capita la mia essenza, quindi? S’è compreso di che pasta sono fatto?
Il Ministero dell’Istruzione, citando esplicite prese di posizione dell’Accademia della Crusca, ha raccomandato alle Scuole “di attenersi alle regole della lingua italiana che consentono l’utilizzo di soluzioni linguistiche comunque conformi alla tradizione ortografica italiana”, rinunciando, quindi, ad asterischi e schwa.
In sintesi, l’Accademia della Crusca, massima autorità in campo linguistico, definisce come non corretto da un punto di vista tecnico l’impiego dei due segni di cui sopra, per cui il Ministero dell’Istruzione che avrebbe dovuto fare, se non invitare a scrivere correttamente?
Much ado about nothing, quindi.
Del resto, che ha detto la Crusca? Semplicemente che “la lingua giuridica e burocratica non sia sede adatta per sperimentazioni innovative che portano alla disomogeneità e compromettono la lineare comprensione dei testi”.
E, allora, la polemica che è sorta è sterile.
Trovo sinceramente insensato che sul punto sia sorto un dibattito accanito. Il Ministero sta semplicemente invitando le Scuole a parlare – e ad insegnare – l’Italiano in modo corretto.
Il punto della discussione, evidentemente, è un altro e si incentra tutto sull’idea della parità, valore fondamentale.
Rispetto a questo tema, sono possibili due approcci: quello della creazione di categorie e sottocategorie per descrivere le peculiarità di ognuno e quello di ignorare le differenze.
In sostanza, in un caso, per cercare di pervenire alla parità, si adottano iniziative come l’uso della parola “Assessora”, le quote rosa et similia.
Però quante sono le caratteristiche che possono descrivere una persona? Una, due, dieci, cento, centomila? Di quante categorie potremmo avere bisogno per inquadrare qualcuno?
Intendo dire: abbiamo davvero bisogno di mille distinzioni?
Qual è l’obiettivo di tutti? Caspita! Ma è includere! Bene! Sacrosanto. Ma, allora, non è più facile, al posto che moltiplicare le distinzioni, ignorare le differenze? Se in un ambiente a maggioranza di persone di etnia caucasica voglio contrastare il razzismo, al posto che imporre la presenza di un tot di persone di colore nei posti di comando, non è più facile puntare ad ignorare le differenze? Se voglio contrastare il machismo, non ci riuscirò certo costringendo dei meschini maschilisti ad avere in lista con sé delle donne, perché è sin troppo evidente che – se sono così beceri – non sceglieranno certamente persone in grado di metterli in ombra, ma rivolgeranno la propria preferenza verso persone di qualità inferiore. Il risultato, quindi, sarebbe una conferma della situazione precedente, se non un peggioramento.
Io so che non c’è una sola mia caratteristica che sia in grado di descrivermi totalmente, per cui non mi sentirei a mio agio a venire considerato solo per quella. Non vorrei mai essere destinato ad una posizione perché miope o con una vista perfetta, oppure perché allergico ai gatti od alle graminacee, oppure perché gay od etero, oppure perché magro o grasso. Vorrei essere scelto per un ruolo, perché capace. Mi sentirei a disagio ad essere incluso in un consesso, per via di una mia caratteristica, insomma: vorrei essere parte d’un gruppo, in quanto semplicemente me stesso, con tutti i miei difetti ed i miei pregi, cioè per la mia unicità.
Mi pare che serva una riflessione fondamentale: la società è spesso più evoluta della politica, che giunge sovente più tardi. Basta guardare i ragazzi di vent’anni: tutti loro sin dall’asilo hanno avuto compagni di scuola di altre religioni, bambini che, se non nati all’estero, sono figli di genitori stranieri. Queste persone non hanno nemmeno idea di che cosa sia il razzismo.
Dovremmo prendere esempio da loro: loro non vedono differenze.
Per superare il problema della disuguaglianza, penso la soluzione sia proprio quella di ignorare le differenze e puntare tutto soltanto all’unica cosa che conta: la persona, che è il valore fondamentale. È con l’educazione al rispetto ed alla considerazione solo del merito che si può generare la vera parità.
La demonizzazione delle parole, invece, penso faccia male, generando un livello di isteria che non aiuta. Leggevo da qualche parte che negli USA è considerato sconveniente usare la parola “cotone” in presenza di una persona di colore, perché qualcuno potrebbe prenderla come una battura perfida sulla condizione di schiavitù in cui verosimilmente vivevano gli avi di quell’individuo.
Giungere a questi livelli rende la vita impossibile, anche perché vede cattiveria dove non c’è. Inoltre la crudeltà non può essere sradicata per legge: va, invece, insegnato a coltivare il valore – innato in tutti noi – della compassione.
Secondo me, infatti, c’è un unico approccio possibile: l’empatia. Mi rifiuto di credere che uno qualsiasi dei miei amici di colore possa pensare che io voglia offenderli, se parlo di cotone in loro presenza. Ritengo, anzi, che si sentirebbero a disagio, se, con loro, non fossi naturale, se fossi ossessionato dall’idea di non dover usare certe parole. Perché – in questo caso sì – li starei discriminando. Allo stesso modo, penso che la mia amica Martina, la cui pelle è d’un bellissimo color ebano, si offenderebbe a morte, se sapesse che l’ho invitata a cena solo per avere a tavola un commensale di colore. Questo non sarebbe rispetto, ma adesione meccanica ad una regola, cioè quanto di più lontano rispetto a quanto è giusto che sia.
Se qualcuno è razzista, non lo si guarirà di certo costringendolo a non esserlo: questo è impossibile e crederlo è da stolti. Bisogna puntare sulla cultura, educare, perché è così che si potrà permettere a chi sbaglia di comprendere il proprio errore.
Serve semplicemente del sano buon senso e serve avere rispetto per l’identità di ognuno, che è molto più articolata di tutte le categorie che la burocrazia potrebbe partorire. Affidiamoci al rispetto e pratichiamo l’empatia.
Se una persona preferisce che le parliamo al maschile o al femminile, assecondiamo questa sua richiesta. Se abbiamo un dubbio, con molto garbo, chiediamo: “come preferisci che mi rivolga a te?”. Magari potremmo sembrare naif, ma posso assicurare che la buona intenzione viene apprezzata. In questo modo, semplicemente dimostriamo sensibilità.
Per questo, se le intenzioni sono buone, sono certo che nessuno si offenda per il fatto che entriamo in una sala salutando con un “ciao a tutti”. Le mie origini baresi consentirebbero di risolvere con un “salót a tott”, con un bel neutro generico, ma in Italiano non funziona così. Però è evidente che non si intende rivolgere un saluto solo ai maschi.
Una volta, ero ad un pride e sentii una persona iniziare il proprio intervento con: “ciao a tutti, tutte, tuttu”. Pareva una presa in giro, ma ovviamente non lo era: osservai quel ragazzo e vidi che tremava. Era terrorizzato dal commettere un errore. Al gay pride! Capito il paradosso? Basta con le divisioni: superiamole. Ma non a colpi di carte da bollo, bensì con l’educazione, cioè con la comprensione per l’altro, col divieto – questo sì per Legge – di discriminare.
Possiamo farcela. I nostri giovani sono già arrivati a quel traguardo che a molti anziani sembra un luogo lontanissimo. Invece è già qui.
Facciamo un respiro profondo e diciamoci apertamente che siamo preziosi, tutti quanti. Che non c’è alcuna differenza tra gli esseri umani. Che conta solo il merito. Per il resto, autentico rispetto per ognuno.

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