Gianpiero Gamaleri, Professore ordinario di Sociologia dei processi culturali e comunicativi e già consigliere di amministrazione Rai
Per quanto fosse malato e sofferente, la scomparsa di Papa Francesco ha colto tutti di sorpresa. Evidentemente la sua presenza, le sue parole e soprattutto i suoi gesti sembravano essere indispensabili non solo alla società contemporanea, ma allo spirito di ciascuno di noi. Di qui il senso di vuoto che pervade questo nostro tempo del “dopo Bergoglio”. Di conseguenza, lo smarrimento che coglie tutti noi di fronte alla scomparsa di Papa Francesco ci riporta allo stato d’animo dei discepoli dopo la scoperta del sepolcro vuoto. E il pensiero va subito a recuperare ricordi e sensazioni di fronte a un’esperienza così intensa e profonda come quella che Papa Francesco ci ha lasciato. A cominciare dallo stesso nome che ha voluto scegliere per il proprio pontificato, Francesco, un nome che nessun suo predecessore aveva avuto l’idea o magari il coraggio di adottare, tanto si presentava così caratterizzato e impegnativo. Un nome che indicava inequivocabilmente un chiaro orientamento verso i poveri, i più fragili ed emarginati in un mondo sempre più complesso ed anche crudele. Il suo viaggio a Lampedusa (“sentivo che dovevo farlo” disse allora) fu l’immediata concretizzazione di quella scelta.
Essendo assolutamente prematuro fare un bilancio di un pontificato così ricco e pieno di stimoli la cosa migliore è di affidarsi a qualche episodio.
Voglio riferirmi a due esperienze dirette che mi hanno personalmente coinvolto.
La prima riguarda l’incarico che ebbi dal 2013, subito dopo la sua elezione, fino alla pandemia, di raccogliere e commentare le omelie che egli pronunciava alle 7 di ogni mattina durante la messa a Santa Marta. Il direttore del settimanale della Mondadori “Il mio Papa”, Aldo Vitali, mi chiese infatti di seguire quella originale iniziativa basata sulle letture del Vecchio e del Nuovo Testamento. Ebbi così la possibilità di conoscere dal di dentro il pensiero e la sensibilità di Papa Francesco attraverso oltre 200 meditazioni, che furono poi raccolte in quattro libri, intitolati “Pensieri per l’Anno Santo” (2014-2015), “Santa Marta” (2016-2017), “Pensieri nascosti” (2017-2019), “Omelie della pandemia” (2020). E’ molto difficile in una tale messe di riflessioni scegliere i punti-chiave. Ma legandomi proprio al clima di questi giorni mi viene da ricordare, ad esempio, il suo ammonimento contro i “cristiani pipistrelli”, quelli sempre incupiti e incapaci del sorriso di fronte alla gioia cristiana basata su quella speranza che è anche il tema dell’Anno Santo che stiamo vivendo. Oppure quella su “il sudario non ha tasche” che ci ricorda che non si va nell’Al-di-Là con le ricchezze, i poteri e le prepotenze di questo mondo. Con infine l’“omelia della barca” del 27 marzo 2020 pronunciata sulla piazza San Pietro vuota e battuta dalla pioggia: “… ci siamo accorti che non possiamo andare avanti ciascuno per conto suo, ma solo insieme… con quella benedetta appartenenza comune alla quale non possiamo sottrarci: l’appartenenza come fratelli”.
E quell’esperienza si concluse per me con la partecipazione all’ultima sua messa nella piccola Cappella di Santa Marta. Dopo la celebrazione Francesco lasciò l’altare, venne a sedersi nel piccolo gruppo dei fedeli a pregare insieme a noi il Padre che ci protegge. Un gesto di fratellanza indimenticabile più eloquente di ogni parola.
Un secondo episodio devo dire davvero sorprendente fu quando gli feci pervenire il mio libro “La fumata bianca della pace” che raccoglieva gli appelli di 12 papi, da Pio IX fino ad oggi, contro le varie guerre che si sono succedute in quasi due secoli di storia. Pensavo che mi sarebbe potuto arrivare tutt’al più un breve messaggio da parte di qualche incaricato della segreteria di Stato. Invece ecco una sua lettera autografa del 25 maggio 2023 con un pensiero espressamente dedicato agli inviati di guerra.
“Voi giornalisti – scrive Francesco – avete una grande missione per tutta la società, che non è solo quella di raccontare quanto succede, ma soprattutto il dar voce alla sofferenza e così aiutare il nostro cuore perché non si indurisca e rimanga vicino a quelli che patiscono il dramma della guerra. Come ho detto, essere giornalisti è una missione che ha, inesorabilmente, insito in sé un fine umanitario. Tante grazie!”.
Nella sua “imitazione di Cristo” Papa Francesco ha dimostrato la possibilità di amare il mondo intero e nel contempo di essere vicino a ciascuno di noi, con le sue qualità ma anche con la sua pochezza, come è capitato proprio nella mia esperienza personale.