Noemi Sanna, Psichiatra e Psichiatra forense
L’aggressività e le sue manifestazioni comportamentali sono un fenomeno complesso, causato da una costellazione di variabili che agiscono integrandosi ed interagendo tra loro e comprendono determinanti biologiche, culturali, sociali e, perfino, circostanziali. Fa parte del nostro modo di essere, della nostra stessa natura, ha un significato funzionale e non è pensabile che si possa eliminare, ma solo controllare o canalizzare. Le neuroscienze sono state in grado di individuare la base biologica della aggressività in alcune zone del cervello e in particolari meccanismi neuronali che, nella specie umana, sono, in gran parte, sotto il controllo della volontà consapevole.
La duplice valenza della aggressività
Da tempo nella riflessione accademica si è concordi nell’affermare che l’aggressività può avere una duplice valenza. Sostanzialmente una positiva al servizio della crescita personale dell’individuo e della comunità, l’altra, violenta e predatoria, orientata verso la altrui distruzione come fonte di soddisfazione dei propri bisogni egoistici.
Nel primo caso siamo di fronte ad una sorta di forza vitale indispensabile ad ogni specie vivente per la difesa del territorio e della comunità, determinante nella competizione finalizzata all’accoppiamento e nell’affermazione della leadership sociale (aggressività difensiva). Nei rapporti interpersonali favorisce la stabilità e la crescita creativa dell’individuo, la definizione dei rispettivi ruoli nel contesto sociale di riferimento, delle gerarchie e dei confini tra le relazioni. Questo tipo di aggressività persegue anche fini altamente cooperativi che sono di vantaggio per tutta la comunità di riferimento (aggressività adattativa). Viene descritta anche una aggressività esplorativa, funzionale alla affermazione di sé e al riconoscimento e tutela della propria identità. Come quella del bambino che esplora l’ambiente e scopre gradualmente i limiti fino ai quali può spingersi e, al contempo, acquisisce contezza della scala di valori delle sue proprie capacità e abilità. La curiosità, la competitività, il gusto della scoperta e dell’esplorazione, l’organizzazione sociale, negli animali come nell’uomo sono, quindi, in diretto collegamento con l’istinto aggressivo.
La violenza, spesso inopportunamente confusa con l’aggressività ma che di essa rappresenta la dimensione maligna, è, al contrario, un comportamento sempre volto a provocare ad altri una qualche sofferenza o danno. Da sottolineare che nella azione violenta vengono adottate strategie che garantiscano un vantaggio nella economia dell’azione: perseguire il massimo risultato esponendosi al minimo rischio. Le vittime sono sempre scelte in base alla loro vulnerabilità e il predatore, sovente, si nutre della loro paura.
Esiste anche una violenza che potremmo definire “istituzionalizzata”. Quella delle tante guerre che ancora affliggono il nostro pianeta. Solo nelle ultime due guerre mondiali, delle quali il nostro civilissimo mondo occidentale è stato protagonista, sono morti milioni di persone, la più parte in giovane età e molti tra civili e innocenti. Circa 10 milioni di morti e 17 milioni di feriti nella prima guerra mondiale, non meno di 60 milioni di morti (da 22,4 a 25,5 milioni di morti tra i militari e da 37,6 a 54,6 milioni morti tra i civili) nella seconda. Queste osservazioni ci costringono a riflettere, seppure non sia questa la sede più opportuna, sulla presenza del male (malvagità, crudeltà, cattiveria, distruttività umana, mysterium iniquitatis,) negli esseri umani.
Correlazione tra violenza e disturbo psichico
Questa matrice comune tra le due forme di aggressività ha determinato nel corso del tempo e sotto l’influenza di differenti atteggiamenti culturali e orientamenti di politica criminale, equivoci e confusione fino ad affermare che la violenza fosse espressione esclusiva di una qualche patologia e, comunque, poco compatibile con la salute mentale.
Le relazioni tra disturbo mentale e comportamento violento sono continuo oggetto di ricerca attraverso approfondimenti che integrano sociologia e psicologia del profondo, e, recentemente, anche attraverso l’uso di sofisticati strumenti di neuroimaging. I disturbi mentali, tuttavia, risentono di una certa variabilità clinica di definizione, a seconda dell’approccio diagnostico utilizzato, e ciò rende difficile far coincidere le scrupolose esigenze diagnostiche in ambito di diritto con le risposte della psichiatria, in ambito di valutazione forense.
Nonostante queste obiettive difficoltà di inquadramento, sono state individuate alcune patologie psichiatriche di una certa gravità (psicosi accompagnate da delirio o deterioramento mentale) nonché alcune patologie caratterizzate da componenti organiche importanti cui viene riconosciuta la possibilità di influire sulla capacità di discernimento della realtà (capacità di intendere) e sul controllo della propria volontà (capacità di volere).
La sola presenza di malattia mentale, tuttavia, non è sufficiente per prevedere un comportamento violento che sembra essere maggiormente associato ad altre variabili tra cui abuso di sostanze, fattori ambientali stressanti, trascorsi di comportamento criminale e, non raramente, una storia di abusi subiti durante l’infanzia. A tal proposito, vengono segnalate alcune osservazioni tratte dalla pratica clinica e validate dalla letteratura scientifica sul tema.
Il disturbo psichico non è mai causa unica e diretta di comportamento violento. Non occorre un disturbo mentale per agire con percosse, lesioni personali, tentare o compiere un omicidio od una violenza sessuale.
Il disturbo psichico deve essere considerato uno tra i molteplici fattori di rischio di comportamento violento. Le variabili che concorrono ad un agito violento sono sempre numerose e variegate.
Il disturbo psichico come fattore di rischio di comportamento violento ha un valore scientifico modesto rispetto ad altri fattori (abuso di sostanze, precedenti antisociali).
Nei disturbi mentali gravi il rischio di comportamento violento è solo moderatamente più elevato in rapporto alla popolazione generale.
Il disturbo psichico, quando presente, può non essere in nesso causale col comportamento violento. Un soggetto con disturbo psichico può mettere in atto un comportamento violento per le stesse motivazioni di un soggetto senza disturbo psichico. La correlazione tra disturbo psichico, infermità mentale e nesso causale con il comportamento violento è di specifica competenza psichiatrico forense.
Alcune dinamiche di violenza
A conferma di quanto sopra si riportano alcune considerazioni, tratte dall’esperienza clinica, in grado di chiarire che chi compie agiti violenti, il più delle volte e contro pregiudizi diffusi nella opinione comune, ha le capacità di apprendimento e di adattabilità proprie della persona sana di mente.
Apprendimento sociale e psicologico del comportamento violento
Numerose teorie sociologiche e psicologiche hanno messo in luce come alcuni individui, privi di qualsiasi psicopatologia di interesse psichiatrico, possano adottare comportamenti criminali violenti attraverso strategie di disimpegno morale: etichettamento, dislocamento della responsabilità, negazione o distorsione delle conseguenze, giustificazione, attribuzione proiettiva di colpa, disumanizzazione della vittima. In certi ambiti culturali si assiste ad una sorta di normalizzazione della violenza che viene eletta a modalità prioritaria di gestione dei conflitti inter personali. Un’ampia letteratura segnala che l’apprendimento sociale della violenza, anche nelle sue forme estreme come l’omicidio, sia tipicamente presente in specifiche sottoculture di violenza di organizzazioni criminali e di gestione sociale della vendetta e dei conflitti personali.
Guadagno secondario del comportamento violento
I guadagni secondari sono quei benefici che derivano da situazioni negative che, paradossalmente, portano qualcosa di positivo. Le attenzioni che si ricevono quando si è malati, alle quali si rinuncia malvolentieri al momento della guarigione, rientrano in questa categoria. L’adozione di comportamenti violenti può indurre guadagni secondari molto vantaggiosi come ottenere e fare quello che si desidera, allontanare o evitare compiti o impegni indesiderati, manifestare liberamente il proprio narcisismo distruttivo, godere di un irresponsabile controllo sadico sulle persone, e via dicendo. In alcuni individui questi guadagni secondari diventano una sorta di pericoloso rinforzo in quanto spingono a reiterare il comportamento che li aveva originati.
Gli schemi ripetitivi del comportamento violento
Ci si riferisce alla tendenza di alcuni criminali ad apporre la firma (signature) per contraddistinguere l’atto violento (l’omicida che amputa alcune specifiche parti del corpo a tutte le vittime che uccide). Ovvero alla capacità di alterare di proposito la scena del crimine (staging) e riprodurre scene ripetitive di alto valore simbolico (le vittime dopo essere uccise possono essere messe in posizioni assai varie e fantasiose). Nel overkilling l’aggressore può mettere in atto un eccesso quantitativo e qualitativo di violenza (vittime uccise con un gran numero di coltellate di cui molte con carattere di letalità). O, ancora, la capacità di apprendere, attraverso gli errori compiuti, modalità sempre più perfezionate di agito violento e migliorare le abituali tecniche di controllo sulla vittima e la ricerca della propria impunità.
I percorsi strutturati del comportamento violento
Il protagonista del comportamento violento quasi mai mette in atto il suo agire in modo improvviso ed inaspettato. L’agito violento non è mai un fulmine a ciel sereno, ma percorre una serie di tappe progressive e ben identificabili. Si tratta di una escalation frequente nei comportamenti violenti tra persone che hanno una relazione di prossimità. Nell’omicidio del coniuge o nel femminicidio compiuto dal partner, l’aggressore mette in atto una sorta di trasformazione della immagine della vittima da “buona” in “cattiva” in modo da poter compiere l’aggressione, ma, allo stesso tempo, auto assolversi dalla colpa. Un esempio può spiegare questa specifica dinamica. Il futuro aggressore, inizialmente, accusa la sua futura vittima, in maniera ingiustificata e perfino avulsa dalla realtà, di essere responsabile di comportamenti scorretti nei suoi confronti. Gradualmente esprime una serie di rivendicazioni, sempre più pressanti, rispetto a presunti danni subiti in seguito alle presunte “scorrettezze” da parte della sua vittima. L’ultima tappa sarà l’aggressione, che può arrivare fino all’omicidio, giustificato, agli occhi dell’aggressore, da una sorta di messa in atto di legittima difesa.
I viraggi del comportamento violento
Non è infrequente che l’autore del comportamento violento possa spostare il bersaglio del suo agire di violenza da una persona ad un’altra persona, nonché da una persona verso di sé o viceversa. Questo viraggio può avvenire in modo rapido ed essere difficilmente prevedibile ed evitabile oppure può avvenire in modo più graduale e più facilmente prevedibile ed evitabile. Sono noti alla cronaca i casi di violenza familiare in cui l’oggetto di aggressione possono essere indifferentemente la compagna, i figli o altri conviventi. Sono anche note alle cronache i casi di femminicidi seguiti da suicidio tentato o attuato, come se la carica di violenza non potesse avere fine se non con la stessa distruzione dell’autore.
Il ruolo delle emozioni
Il comportamento violento è spesso sostenuto da emozioni quali rabbia, odio, disprezzo, paura, che, senza alcuna correlazione con un disturbo mentale, aumentano di intensità sino a scatenare un passaggio all’atto violento. Le emozioni sono supportate da meccanismi psicologici del tutto normali che ciascuno di noi impiega nella sua quotidianità. La stessa giurisprudenza non riconosce alle emozioni rilevanza sul piano penale e nega che possano escludere l’imputabilità. Una emozione come la rabbia, ad esempio, può manifestare diverse sfaccettature e: 1. divenire sempre più intensa (attraverso la proiezione della propria aggressività sull’altro); 2. spostarsi da una situazione o da una persona ad un’altra situazione o ad un’altra persona (mutando nel tempo l’obiettivo dell’aggressività mediante il meccanismo psicologico dello spostamento); 3. allargarsi a macchia d’olio e cioé estendersi in modo automatico, diffuso ed intrusivo a tutti i rapporti interpersonali; 4. autoalimentarsi con la provocazione, la sfida, le minacce (per suscitare la reattività altrui e poter agire la propria violenza utilizzando il meccanismo psicologico della razionalizzazione). Le cose si complicano alla luce del fatto che spesso emozioni e passioni possono essere sintomi di accompagnamento di disturbi psichici di varia gravità, né può essere trascurata la loro importanza nel motivare e condizionare il comportamento umano.
Molte delle dinamiche descritte sottendono un uso continuo e ripetitivo della violenza e configurano veri e propri stili di vita violenti raramente associati a disturbo psichico. Molti individui, privi di qualsiasi patologia di interesse psichiatrico, costruiscono la propria identità, a partire dal loro stile di vita violento, non tanto sulla stima e la buona reputazione quanto sulla paura e il timore che incutono e diffondono. La violenza diviene un potente mezzo di manipolazione e di controllo dell’altro.
La percezione sociale dell’autore di violenza
Di fronte a delitti compiuti con particolare efferatezza, soprattutto se a danno di vittime incapaci di difendersi (bambini, anziani, donne), suscitano nella popolazione generale ed anche, ahimè, tra gli addetti ai lavori, generiche reazioni emotive che possono condizionare la corretta valutazione e gestione del fenomeno violento Sentimenti di rabbia, di ostilità, nei confronti degli autori e reazioni emotive di empatia coinvolgente nei confronti delle vittime.
La nostra psiche, inoltre, si difende dall’orrore suscitato dalla violenza attivando meccanismi di difesa psicologici più complessi delle generiche reazioni emotive sopra descritte. I meccanismi di difesa possono essere assimilati a forme di adattamento che la psiche mette in atto, di fronte ad esperienze fortemente suggestive e tali da perturbare l’equilibrio psichico, al fine di proteggere la nostra personale “confort zone” e i suoi collaudati valori. Ci aiutano ad enfatizzare, almeno nella percezione, la nostra estraneità rispetto alla violenza e ci permettono di prendere le distanze dall’orrore come da qualcosa di profondamente differente da noi. Vediamone due fra i più frequentemente impiegati.
La psichiatrizzazione del comportamento violento
Consiste nell’attribuire ai comportamenti e pensieri dell’aggressore un valore di disturbo psichico che in realtà non possiede. Ad esempio: tutte le persone che uccidono sono malate di mente, se fossero sane di mente non avrebbero ucciso. Questo automatico, generalizzato ed acritico giudizio ci mette al riparo dalla paura di potere essere noi stessi capaci di un qualche agito violento e rinforza le nostre aree psicologiche di sicurezza e di prevedibilità personale comportamentale: Solamente una persona con disturbo psichico può uccidere… Io non ho disturbo psichico… Quindi non sarò mai un assassino… Io, sano di mente, così diverso da chi uccide, malato di mente, posso continuare a vivere tranquillo e prevedere sempre per me un comportamento socialmente approvato e rimanere tranquillo…
La criminalizzazione del malato di mente
Consiste nel ritenere, senza giustificazione scientifica, che: tutti i malati di mente sono pericolosi perché possono compiere gesti criminali e soprattutto mettere in atto in modo imprevedibile ed inevitabile comportamenti violenti sulle persone. La percezione del malato di mente come persona diversa dal sano di mente trascina, proprio in ragione di una diversità spesso incomprensibile, paure e fantasmi protettivi ancestrali che ispirano diffidenza e facilitano proiezioni di sentimenti inaccettabili come quelli aggressivi e violenti (confusione tra bad e mad). Questo pregiudizio non tiene conto del fatto, validato dalla letteratura scientifica, che i malati di mente sono statisticamente meno violenti dei criminali comuni o dei consumatori abituali di alcol e di sostanze e che i malati di mente sono da due a tre volte più frequentemente vittime di violenza rispetto ai soggetti sani.
L’effetto pregiudizievole che questi meccanismi di difesa hanno sulla opinione pubblica finiscono per deformare la percezione della realtà in tema di comportamento violento e rappresentano un ostacolo alla comprensione obiettiva del fenomeno, della sua complessità, delle sue molteplici e variegate correlazioni concausali. In tal modo ogni intervento migliorativo, di ordine preventivo, di trattamento e di politica criminale, può essere compromesso.
Gli stessi addetti ai lavori, nel loro approccio al comportamento violento, non sempre sono immuni da contaminazioni emotive che rischiano di distoglierli dalle indicazioni delle evidenze scientifiche e delle linee guida consigliate in tema di comportamento violento. Può succedere, allora, di registrare manifesti errori tecnici nella valutazione clinica e forense dei fatti previsti dalla legge come reato, nella formulazione di sentenze sugli autori di comportamento violento e le conseguenti applicazioni di pena.
Ma è ancora una volta la vittima che finisce per subire il maggior danno. Questa volta non più dal suo aggressore ma, in termini di trascuratezza, da parte proprio di quegli enti che sono deputati alla sua tutela. In questo contesto di poca chiarezza e di noncuranza nella ricerca ed assunzione di responsabilità da parte di tutti gli attori coinvolti, ciascuno per la parte di sua specifica pertinenza, la vittima continua ad essere sovra esposta, privata della indispensabile tutela e protezione e financo ostacolata nel suo legittimo percorso di resilienza.