Il processo civile italiano presenta da anni elementi di criticità dovuti alla inidoneità a garantire una risposta giudiziaria in tempi tali da soddisfare le esigenze dell’economia e della società.
Innegabili sono i danni economici dovuti ad un sistema che non permette uno snello soddisfacimento dei crediti e una efficace e rapida risoluzione delle controversie.
L’introduzione dell’uso di strumenti informatici, quale la consolle del magistrato, non ha reso più fluido il processo, avendo di fatto costituto un mezzo per supplire alla sistematica carenza del personale amministrativo, spesso peraltro non adeguatamente preparato all’uso di questi strumenti e neppure supportato da idonee strutture come computer sufficientemente potenti e linee adeguate all’enorme scambio di dati.
Ne consegue che, prima ancora di pur necessarie modifiche al codice di procedura civile, occorre dotare il sistema giustizia di idonee strutture e linee informatiche, così come occorre assumere e mantenere negli uffici personale e dirigenti qualificati, garantendo altresì un sistematico aggiornamento informatico dell’intero corpo amministrativo.
In questa prospettiva, altrettanto imprescindibili appaiono l’implementazione dell’organico della magistratura, la riorganizzazione degli uffici secondo criteri di specializzazione, la previsione di meccanismi premiali volti a incentivare la produttività dei magistrati. Si tratta di misure irrinunciabili e indispensabili per scongiurare il rischio che qualsiasi riforma dell’iter processuale risulti “parziale” – se non del tutto inefficace – a fronte di provvedimenti che talvolta vengono attesi per mesi/anni, ovvero a fronte di udienze che talvolta vengono fissate a mesi/anni di distanza dalla precedente.
È importante osservare come qualsiasi riforma delle norme processuali (a meno che non si tratti di limitatissimi dettagli) da un lato comporti un inevitabile costo in termini di studio e “acclimatazione” degli operatori del processo (giudici, avvocati e spesso anche cancellieri) e, dall’altro, non sia da sola bastevole – come la esperienza degli ultimi trent’anni ampiamente dimostra – a migliorare l’efficienza del servizio giustizia. Da qui la necessità che si metta mano, in particolare oggi che si prospetta la possibilità di un consistente investimento di risorse economiche, anzitutto ad incisive misure organizzative, e ciò anche al fine di evitare la inutilità e/o inefficacia di modifiche della normativa processuale.
Tornando alla struttura del giudizio civile, va in primo luogo evidenziato come la modifica della mediazione obbligatoria introdotta con la Legge di Conversione 9 agosto 2013, n. 98 non abbia deflazionato la domanda giudiziale nell’entità e nei tempi sperati, traducendosi anch’essa non di rado in procedimenti della lunghezza di anni, sebbene la loro durata formale sia determinata in tre mesi. Peraltro, la mediazione è stata resa obbligatoria esclusivamente in materia di condominio, diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno derivante da responsabilità medica e sanitaria e da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari e finanziari, con esclusione di tutte le materie economiche/contrattuali più complesse.
Dopo i primi due anni dalla introduzione (2012 e 2013) gli accordi raggiunti non hanno mai superato il 28%, come risulta dai dati del Ministero della Giustizia, riferendosi peraltro ad ipotesi limitate e a struttura processuale non complessa (con ciò intendendo quelle che necessitano per lo più di una istruttoria semplice e breve); la capacità deflattiva dell’istituto in esame non ha di fatto condotto ad un abbattimento della purtroppo lunga soglia di definizione del processo civile più complesso, cioè quello che più incide sulla crescita economica del Paese.
Ne consegue che una delle priorità del sistema processuale civilistico italiano – fermo quanto premesso in ordine alla contestuale e indispensabile implementazione del funzionamento degli Uffici giudiziari – deve essere quella di snellire la procedura, in primo luogo eliminando i lunghi termini obbligatori previsti dal codice di procedura civile, che impongono 8 mesi di stasi sostanzialmente “obbligatoria”.
Di seguito un elenco semplificativo dell’attuale situazione e delle principali proposte di modifica ritenute applicabili.
(1) Allo stato, tra il giorno della notificazione della citazione e quello dell’udienza di comparizione devono intercorrere 90 giorni se il luogo della notificazione si trova in Italia e 150 se si trova all’estero (cfr. art. 163-bis c.p.c.).
Il termine è estremamente lungo e andrebbe ridotto, quantomeno con riferimento a quelle materie che non presentano particolare complessità e/o alle controversie di limitato valore economico.
Nel rito del lavoro, tra la data di notificazione del ricorso e quella dell’udienza di discussione deve intercorrere un termine non minore a gg. 30 (cfr. art 415, comma 5, c.p.c.) e il resistente deve costituirsi almeno 10 gg. prima dell’udienza (idem per il processo sommario di cognizione).
Questo termine sarebbe però sicuramente troppo breve per i procedimenti civili di complessità medio/alta; un giusto contemperamento potrebbe comunque essere l’adozione del rito lavoro, con conseguente introduzione del procedimento a mezzo del ricorso che sostituisce l’atto di citazione, prevedendo però che tra la data di notificazione del ricorso e quella dell’udienza di discussione debba intercorrere un termine non minore di gg. 60, salvo mantenere il termine di 90 gg. per alcune materie di elevata complessità tecnica e/o documentale tassativamente individuate (es/risarcimento del danno ambientale, controversie in materia antitrust).
(2) I termini per la proposizione delle richieste istruttorie sono molto lunghi ed ammontano, allo stato, a 80 giorni (art. 183, comma 6, c.p.c.).
Il rito del lavoro prevede invece che le richieste istruttorie siano inserite nel ricorso introduttivo del procedimento e nella memoria di costituzione di parte resistente, con possibilità di proporre mezzi istruttori che non potevano essere proposti prima (cfr. art 420, commi 5 e 6 , c.p.c.).
Analoga disciplina potrebbe essere applicata per il rito civile, considerando che, allorché si intenta una causa, l’attore molto spesso ben sa di quali strumenti istruttori dispone. La regola giuslavoristica potrebbe comunque essere “attenuata” mantenendo ferma la possibilità per l’attore/ricorrente di richiedere, entro 15 giorni dalla prima udienza, quei mezzi istruttori che sono conseguenza delle domande riconvenzionali del convenuto o anche solo delle difese del convenuto (si tenga presente, infatti, che la necessità di dedurre determinati mezzi istruttori può sorgere anche solo dalla circostanza che il convenuto abbia contestato determinati fatti; laddove invece, in mancanza di siffatta contestazione, non vi sarebbe necessità di deduzioni ulteriori rispetto a quelle già formulate nell’atto introduttivo).
In alternativa, ma nella medesima prospettiva – quella cioè di “ridurre i tempi morti” della fase preistruttoria e istruttoria – gli attuali termini ex art. 183 c.p.c. potrebbero essere ulteriormente ridotti, facendo poi in modo che l’inutile udienza di discussione sulla ammissione dei mezzi di prova, che nella prassi è “risorta dalle ceneri” in modo generalizzato, ritorni ad essere una limitata eccezione e che di regola, dopo lo scambio delle memorie, il giudice, con ordinanza fuori udienza, fissi la seconda udienza per l’assunzione dei mezzi di prova o per p.c. Ancora, sarebbe opportuno prevedere che in qualsiasi momento le parti possano chiedere, di comune accordo, di precisare le conclusioni, avviando così la causa su binari decisori senza ulteriori tempi morti spesso ultra-annuali lasciati alla discrezione del giudice.
L’introduzione di queste innovazioni (nell’una o nell’altra direzione sopra delineata) permetterebbe di strutturare una prima parte del processo civile molto più snella, con l’ulteriore vantaggio che una più rapida dipanazione dei mezzi istruttori aumenterebbe le reali possibilità di accordo tra le parti. Infatti, come si evince dalla pratica, sovente gli accordi vengono raggiunti proprio all’esito del provvedimento di ammissione delle prove.
Inoltre, l’ulteriore correttivo di estrazione giuslavoristica attinente al potere d’ufficio del giudice di disporre in qualsiasi momento integrazioni istruttorie (art. 421 c.p.c.) renderebbe il procedimento forse meno formale, ma molto probabilmente più efficiente.
È pur vero che l’adozione del rito del lavoro con riferimento ad alcune cause particolarmente complesse (ad es. una azione sociale di responsabilità con numerose parti) potrebbe presentare qualche difficoltà; ma ciò dimostra una volta ancora come qualsiasi riforma dell’iter processuale non possa prescindere da un’adeguata riorganizzazione e implementazione degli uffici, che consenta ai magistrati di avere a che fare con un carico di ruolo tollerabile.
(3) I termini per le comparse conclusionali, dopo l’assunzione in decisione, sono allo stato di 80 gg. (più 20 gg per le repliche).
Nel rito del lavoro questi termini non sussistono: il dispositivo viene letto in udienza all’esito della discussione delle parti e la motivazione viene depositata entro 30 gg. Se anche questa regola fosse mutuata al processo civile, da una parte ciò renderebbe più snello il procedimento; dall’altra, la lettura immediata del dispositivo cristallizzerebbe immediatamente la soluzione della controversia.
Anche in questo caso, con riferimento alle controversie più complesse potrebbe essere mantenuta ferma la possibilità del deposito di una sola memoria conclusionale prima della discussione (con esclusione delle repliche), purché, a seguito dello svolgimento di attività istruttoria (così escludendo tale facoltà ove di istruttoria non ve ne sia stata alcuna), almeno una delle parti ne faccia richiesta.
(4) Resta infine inteso che, a seguito dell’adozione del rito del lavoro – con i correttivi di cui sopra – verrebbe definitivamente abrogata la c.d. “udienza di precisazione delle conclusioni”, che potrebbe essere sostituita (quantomeno nei casi in cui abbia avuto luogo un’istruttoria) dal mero deposito di un foglio di precisazione delle conclusioni.
Beninteso: si ribadisce ancora l’imprescindibilità di quanto illustrato all’inizio della trattazione, ossia che la riduzione dei tempi morti “intermedi”, così come più in generale qualunque modifica e/o riduzione dei termini intraprocessuali, rischia di essere poca cosa se non si riducono i tempi effettivi di decisione, il che appare impossibile senza contestualmente razionalizzare e ridurre i carichi di ruolo.
Ferma questa non rinunciabile prospettazione, si ritiene che applicando il rito del lavoro si possa ottenere un risparmio di più di otto mesi di “stasi obbligatoria” del processo e che, rendendo più “elastici” e flessibili i poteri istruttori del giudice, l’istruttoria ne risulti più agile e funzionale.
Ulteriore modifica meritevole di valutazione potrebbe essere la possibilità che la prescrizione sia rilevata di ufficio, al fine di eliminare una serie di processi inutili che vengono instaurati nonostante il credito sia già (spesso ampiamente) prescritto. Appare francamente discutibile l’attuale scenario, nel quale i decreti ingiuntivi devono essere emessi nonostante l’intervenuta prescrizione, in quanto la relativa eccezione può essere sollevata solo in sede di opposizione al provvedimento monitorio da parte del debitore ingiunto (il quale, com’è naturale, non ha potuto partecipare al procedimento monitorio). Questi procedimenti potrebbero essere evitati semplicemente prevedendo, come detto, che la prescrizione possa essere rilevata di ufficio. In tal modo si potrebbero anche evitare, o immediatamente definire, numerosi altri processi, con il vantaggio di rafforzare la stabilità e la certezza dei diritti patrimoniali della persona o dell’impresa, non più soggetti ad azioni esperibili senza limiti temporali.
Anna Maria Gregori – Giudice presso il Tribunale di Roma
Paolo Duvia – Avvocato e Professore Associato Di Diritto Privato presso l’Università degli Studi dell’Insubria