Il d.d.l. n. 1662 approvato dal Senato il 21 settembre scorso e ora sottoposto all’esame della Camera, contenente la «Delega al Governo per l’efficienza del processo civile e per la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie e misure urgenti di razionalizzazione dei procedimenti in materia di diritti delle persone e delle famiglie nonché in materia di esecuzione forzata», si propone un obiettivo tanto atteso quanto ambizioso: quello di operare, per tramite del legislatore delegato (che dovrà provvedere entro un anno dall’entrata in vigore della legge delega) un riassetto «formale e sostanziale del processo civile», mediante novelle al codice di procedura e alle leggi processuali speciali «in funzione di obiettivi di semplificazione, speditezza e razionalizzazione del processo civile, nel rispetto della garanzia del contraddittorio, attenendosi ai princìpi e criteri direttivi previsti dalla presente legge» (cfr. art. 1 d.d.l.).
Le novità prospettata da d.d.l. sono numerose, variegate e – come da nuovo titolo approvato dal Senato – dirette a incidere non solo sul giudizio di primo grado e sulla disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie (in primis mediazione e negoziazione assistita), ma anche su procedimenti speciali e sul processo di esecuzione, nonché – tra l’altro – sul regime delle impugnazioni e sull’arbitrato.
L’ampiezza dell’intervento richiederà, dopo l’attesa approvazione da parte della Camera, un meditato esame analitico delle singole norme, che in questa fase – e in questa sede – non può ancora essere svolto. Quel che invece è possibile sin d’ora evidenziare sono alcune condivisibili linee d’azione sottese all’impianto del d.d.l., che sotto diversi profili accoglie, nella prospettiva di un reale miglioramento dell’efficienza del processo e della riduzione complessiva della sua durata, le istanze che Lettera150 aveva svolto qualche mese addietro.
Così, ad esempio, in materia di risoluzione alternativa delle controversie già Lettera150 aveva osservato come la modifica della mediazione obbligatoria introdotta con la Legge di Conversione 9 agosto 2013, n. 98, allo stato non abbia affatto deflazionato la domanda giudiziale nell’entità e nei tempi sperati, traducendosi anch’essa non di rado in procedimenti di lunga durata (sebbene la loro durata formale sia determinata in tre mesi) e, soprattutto, senza alcun reale abbattimento della lunga soglia di definizione dei processi civili vertenti su materie economiche/contrattuali più complesse, rimaste escluse dall’ambito di obbligatorietà dello strumento (operativo, com’è noto, esclusivamente in materia di condominio, diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno derivante da responsabilità medica e sanitaria e da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari e finanziari). Al comma 4, lett. c, dell’unico articolo del d.d.l. è ora in effetti prevista l’estensione del ricorso obbligatorio alla mediazione a fattispecie più articolate, come quelle «in materia di contratti di associazione in partecipazione, di consorzio, di franchising, di opera, di rete, di somministrazione, di società di persone e di subfornitura», così orientando l’istituto anche verso la deflazione di contenziosi la cui istruttoria è spesso meno agevole.
Il profilo probabilmente più interessante del d.d.l. è quello riguardante la fase introduttiva del giudizio di primo grado, destinata a una parziale rivoluzione attraverso l’adozione di un modello che attinge, in parte, al rito del lavoro e, in parte, alla (per la verità poco fortunata) disciplina del c.d. “rito societario” a suo tempo introdotta dal d.lgs. n. 5/2003 e poi abrogata a soli sei anni di distanza.
Il comma 5, lett. c, d, e, f, g del d.d.l. prevede, tra l’altro, che tanto l’attore quanto il convenuto debbano, fin dai rispettivi primi atti processuali (atto di citazione e comparsa di risposta) indicare specificamente i mezzi di prova dei quali intendono valersi e i documenti che offrono in comunicazione; che l’attore, entro un congruo termine prima dell’udienza di comparizione, possa proporre a pena di decadenza le domande e le eccezioni che sono conseguenza della domanda riconvenzionale o delle eccezioni del convenuto e chiedere di essere autorizzato a chiamare un terzo se l’esigenza è sorta dalle medesime difese del convenuto, nonché in ogni caso precisare e modificare le domande, le eccezioni e le conclusioni già formulate e, a pena di decadenza, indicare i nuovi mezzi di prova e le produzioni documentali; che entro un successivo termine, sempre anteriore all’udienza di comparizione, il convenuto possa modificare le domande, le eccezioni e le conclusioni già formulate e, a pena di decadenza, indicare i mezzi di prova ed effettuare le produzioni documentali; che entro un ulteriore termine prima dell’udienza di comparizione le parti possano replicare alle domande ed eccezioni formulate nelle memorie integrative e indicare la prova contraria.
In tal modo la struttura del nuovo giudizio di primo grado volge all’apprezzabile obiettivo di presentare il processo al Giudice solo quando esso è in condizione di essere trattato efficacemente. In sostanza, analogamente a quanto avviene nel vigente processo del lavoro ove si arriva all’udienza con una causa integralmente trattata, così nel sistema delineato l’udienza non è più luogo di mero “smistamento” della causa all’inizio della trattazione, ma è la sede in cui il contenzioso perviene dopo essere stato compiutamente illustrato e istruito dalle parti, dando la concreta possibilità all’autorità giudicante di valutarne il grado di maturità per la decisione ovvero provvedere all’assunzione delle prove.
Si tratta, anche in questo caso, di interventi che Lettera150 aveva prospettato come opportuni, evidenziando l’inutilità del sovrabbondante iter processuale attualmente declinato dall’art. 183 c.p.c. (considerato che, allorché intenta una causa, l’attore ben sa di quali strumenti istruttori dispone) e auspicando l’assunzione di un modello affine a quello del rito del lavoro, in grado di abbreviare il processo attraverso l’eliminazione di attività dispendiose e quasi sempre inutili (come l’attuale prima udienza di comparizione) e la previsione di più rigide preclusioni in ordine alla deduzione dei mezzi istruttori e alle eventuali integrazioni rese necessarie dalle difese delle controparti.
Nella medesima prospettiva non può non essere condivisa – e anche in questo caso Lettera150 si era fatta promotrice della modifica dell’attuale disciplina – l’eliminazione di tutti quegli ulteriori “tempi morti” che attualmente affliggono il processo: uno di questi è certamente rappresentato dall’udienza di precisazione delle conclusioni, che il d.d.l. sostituisce con il semplice deposito di note scritte che contengano siffatta precisazione (art. 1, comma 5, lett. [l], n. 2.1 d.d.l.).
Non tutte le innovazioni previste dalla riforma appaiono convincenti e vi sono pochi dubbi circa il fatto che i commentatori ne evidenzieranno, in maniera analitica, le numerose criticità e lacune. A mo’ d’esempio, solleva dubbi il fatto che nelle controversie che hanno per oggetto diritti disponibili sia prevista la possibilità per il Giudice, su istanza di parte, di pronunciare ordinanza di accoglimento della domanda, provvisoriamente esecutiva, quando i fatti costituivi sono provati e le difese del convenuto appaiono manifestamente infondate (art. 1, comma 5, lett. [o] n. 1). La disposizione sembra sovrapporsi al vigente art. 186-bis c.p.c. (ordinanza di pagamento delle somme non contestate), al vigente art. 186-ter c.p.c. (ordinanza ingiunzione), e, soprattutto, al vigente art. 186-quater c.p.c. (ordinanza successiva alla chiusura dell’istruzione), che appare molto più snello della citata previsione, in quanto nell’attuale codice l’ordinanza in questione è titolo esecutivo, non è impugnabile (mentre la riforma prevede la possibilità di reclamo) e la successiva sentenza deve essere espressamente richiesta.
Anche in materia di impugnazioni le perplessità sono molteplici: se talora il quadro delineato dal d.d.l. sembrerebbe addirittura poter prefigurare un aumento dei tempi del giudizio, in generale vi sono dubbi su alcuni istituti – primo tra tutti quello che consente la preliminare dichiarazione di “manifesta infondatezza” dell’appello (art. 1, comma 8, lett. [a] ss.) – i cui contenuti, già incerti, rischiano di diventare ancor più aleatori a seguito delle vaghe indicazioni presenti nel d.d.l.
Più in generale, il vero interrogativo che accompagna il d.d.l. è se, parallelamente alla riforma processuale, verranno effettivamente realizzati quei non più procrastinabili interventi strutturali sul sistema senza i quali non sarà comunque possibile garantire una risposta giudiziaria in tempi tali da soddisfare le esigenze dell’economia e della società.
La dotazione di idonee linee informatiche e l’assunzione/formazione di personale qualificato che possa garantire un adeguato funzionamento del processo civile telematico; l’implementazione dell’organico della magistratura; la riorganizzazione degli uffici secondo criteri di specializzazione; la previsione di meccanismi premiali volti a incentivare la produttività dei magistrati; appaiono queste le irrinunciabili e indispensabili misure per scongiurare il rischio che qualsiasi riforma dell’iter processuale risulti “parziale” – se non del tutto inefficace – a fronte di provvedimenti che talvolta vengono attesi per mesi/anni, ovvero a fronte di udienze che talvolta vengono fissate a mesi/anni di distanza.