Ambiente, energia, fisco, proprietà privata, scuola, giustizia: osservazioni a margine del Programma elettorale PD
Il Programma predisposto dal PD appare, in generale, infarcito di slogan propagandistici e poco attento all’esigenza di individuare accanto ai problemi le possibili risposte con le relative risorse. Le proposte che vengono elencate appaiono conseguentemente fragili.
Se si scorre il testo, alcuni suoi passaggi palesano emblematicamente questo limite di fondo.
***
A pagina 3 si legge:
«Abbiamo sostenuto con lealtà e convinzione l’esperienza del governo Draghi, nato in una fase di emergenza con una maggioranza di unità nazionale e “senza una formula politica”».
L’affermazione vorrebbe sottolineare la responsabilità di altre forze politiche per la caduta del governo-Draghi, di cui, tuttavia, si riconosce la genetica limitatezza ‘programmatica’.
In contrasto con questo aspetto che ha caratterizzato la nascita del governo-Draghi e, in particolare, con la sua funzione volta a realizzare il piano vaccinale e a predisporre il PNRR in modo da rendere possibile la sua approvazione da parte della UE, il programma del PD parrebbe presupporre che l’esecutivo avrebbe potuto continuare nella sua attività ancora a lungo, dimenticando che le elezioni del 25 settembre p.v., a fronte della palese impossibilità di continuare a operare per l’opposizione di merito dei 5 Stelle, hanno solo anticipato di qualche mese la data delle elezioni politiche già previste fisiologicamente per la primavera del 2023. Il che dovrebbe aprire la strada alla formazione di un governo politico in grado di operare a più largo spettro, più coeso e, quindi, in grado di assicurare un’azione assai più incisiva per l’attuazione del PNRR e ben al di là di esso.
Si coglie, in definitiva, il rimpianto per una esperienza di governo finita, di cui, comunque, si presuppone la limitatezza programmatica a causa dell’affermata mancanza di una ‘base politica’, facendosi trasparire nello stesso tempo la speranza per un ‘rilancio’ nella nuova legislatura di una indefinita ‘agenda Draghi’.
Quelle che poi seguono sono, per lo più, affermazioni di principio su quanto si vorrebbe fare, senza concretamente specificare come realizzarlo.
Per esempio, si legge:
pag. 6 «Dobbiamo fissare obiettivi climatici realistici ma ambiziosi, mettendo in campo azioni capaci di garantire una transizione socialmente equa e di rafforzare l’innovazione e la competitività della nostra industria»
pag. 7 «Vogliamo intervenire sulla riduzione dei costi energetici di famiglie e imprese attraverso proposte concrete, capaci di dare una spinta decisiva alle fonti pulite e rinnovabili».
Talvolta, in apparenza, il cliché narrativo muta.
Per esempio, a pag. 7 si fa accenno ad alcune ‘necessità’ del Paese, come quella della ‘siccità’, facendo riferimento a ‘piani’ per contrastarla e dimenticandosi di sottolineare che si tratta di un ‘problema energivoro’: in sostanza, non si tiene conto che per affrontarlo bisogna indicare da quale fonte si intende prendere l’energia necessaria.
A conferma del rilievo, basta leggere il documento finlandese (https://www.vttresearch.com/sites/default/files/pdf/workingpapers/2008/W90.pdf), per rendersi conto (pagina 46 figura 11) della consapevolezza diffusa che la desalinizzazione dell’acqua impone un processo energivoro.
Sempre a pag. 7, si fa accenno all’esigenza di implementare i ‘servizi digitali’: tuttavia, nulla si dice in merito alle nuove tecnologie che potrebbero fare la differenza e, quindi, rivelarsi decisive nel processo di innovazione. In questo caso, si affrontano tematiche fondamentali per il presente/futuro, guardando implicitamente a modelli del passato ormai superati.
A pagina 8 vengono richiamati cumulativamente problemi legati al lavoro precario e/o discontinuo, ma, anche in questo caso, risultano ‘evanescenti’ le soluzioni proposte.
Inoltre, sempre a pag. 8, si afferma che spesso una quota del lavoro sommerso è collegata a «cittadini stranieri in particolari condizioni di vulnerabilità» (forse si allude con siffatta espressione anche agli immigrati?), ma non si spiega come si possa ‘governare’ il problema.
Segue a pag. 9 e a pag. 10 la declamazione di altri buoni propositi, come, per esempio, il superamento delle diseguaglianze territoriali, la lotta ai mutamenti climatici, la valorizzazione dei diritti della persona, la necessità di investire «nella scuola e nell’istruzione universitaria e professionale, strumenti di emancipazione e riscatto delle persone e ossigeno per l’intera società». Si rimane, comunque, su un piano generico e non vengono sostanzialmente indicate proposte operative, cosa che avviene più avanti, a pag. 22 e pag. 23, sul tema-scuola ma, come si vedrà, in modo inadeguato.
A pag. 10 si può cogliere uno sforzo per entrare nel merito dei problemi enunciati solo quando si parla di legge diretta a regolamentare il fine vita, ponendosi in linea di continuità con la proposta già depositata nella legislatura attuale. Tuttavia, la proposta appare enunciata in modo ‘totalizzante’, senza che si palesi alcuno sforzo per tenere conto dei rilievi/esigenze rappresentate da altre forze politiche.
A pag. 10 nella sua genericità, lascia spazio al legittimo timore di potenziali derive liberticide l’accenno all’esigenza di contrastare le strategie di disinformazione.
A pag. 11 si prospetta di «investire con decisione sulla vocazione mediterranea dell’Europa, quale chiave di una nuova centralità del nostro Paese nel progetto europeo»: si vuole, cioè, trasformare «il Sud in un hub naturale dell’Europa e dell’Italia sul Mediterraneo». L’idea di per sé più che accettabile non appare, però, sostenuta dalla considerazione della necessità di prevedere in connessione il potenziamento dei trasporti e della logistica.
A pag. 11-12 si dice che la Unione europea è insostituibile, ma che vanno riformati i Trattati. Anche in questo caso, senza dire quali Trattati siano da riformare, in quale misura e come farlo a fronte dell’attuale regola dell’unanimità, che rappresenta un forte limite operativo nelle possibilità di intervento in una materia come quella della riforma dei Trattati. Peraltro, in connessione, si fa un accenno al tema della ‘immigrazione’, ma sempre senza indicare cosa si vorrebbe stabilire in materia e senza distinguere fra ‘richiedenti asilo’ e ‘immigrati economici’. Il documento omette di citare uno dei principi cardine della vigente disciplina che regola l’immigrazione, consistente nell’adozione di misure di contrasto di tutti i comportamenti illeciti collegati ai fenomeni migratori. Si rendono, infatti, necessarie – il documento non ne fa menzione – misure preventive, volte a impedire gli ingressi al di fuori delle modalità consentite e misure repressive che sanzionino gli stranieri, i quali, entrati clandestinamente in Italia, violano le disposizioni amministrative che regolano la presenza legale nel territorio italiano. Il documento non fa accenno alla necessità di adeguamento delle norme di diritto interno agli accordi internazionali di Schengen, alla loro rinegoziazione in riferimento a nuove esigenze o alla rivisitazione della disciplina normativa del regime di espulsione degli immigrati clandestini, alla connessa tratta delle persone e alla predisposizione/gestione dei centri di permanenza e accoglienza, etc.
A pag. 11, si afferma l’esigenza di lasciarsi alle spalle la politica dell’austerità:
«Per raggiungere questi obiettivi, riteniamo che l’Unione europea debba ripensare la propria governance economica, lasciandosi definitivamente alle spalle l’era dell’austerità e liberando investimenti a sostegno della crescita. L’Italia deve essere leader nella riforma del Patto di Stabilità verso un nuovo Patto di Sostenibilità, che coniughi attenzione ai conti pubblici e promozione degli investimenti necessari a sostenere transizione ecologica e sviluppo. In questo nuovo quadro, le regole di riduzione del debito dovranno essere parametrate al contesto di ogni singolo Paese, così da non compromettere la crescita e non ripetere gli errori del passato».
È evidente che queste affermazioni non risultano collegate all’indicazione delle concrete azioni da intraprendere per giungere al superamento dell’approccio europeo criticato.
Inoltre, si propone, alquanto semplicisticamente, il superamento dell’attuale struttura organizzativa dell’Unione europea con una confusa commistione di federalismo e confederalismo, evidenziandosi all’interno del nuovo quadro l’appoggio della richiesta da parte delle ONG/OSC di incrementare le spese per la cooperazione grazie all’incremento delle spesefino allo 0,7% del PIL, senza indicazioni in merito alla copertura finanziaria:
«Nella nostra visione, l’Unione europea deve sviluppare una strategia inclusiva e progressiva di allargamento verso i Paesi vicini, a partire dai Balcani. Dobbiamo dare un segnale politico chiaro ai popoli che vogliono entrare nell’Unione.
Accogliere oggi per integrare domani è una priorità geopolitica dell’Ue, come lo è quella di aprire le porte a chi sogna la democrazia europea e rigetta i modelli autocratici. Per farlo, dobbiamo costruire un percorso di coinvolgimento progressivo dei Paesi candidati, parallelo e complementare alla procedura di adesione. Serve dar vita a una Confederazione europea che leghi i 27 stati membri e i Paesi candidati, che sia uno spazio comune dove condividere le scelte strategiche in materia di politica estera, difesa della pace, lotta al cambiamento climatico e che sia l’anticamera per l’adesione piena all’Unione.
Dobbiamo investire con decisione sulla vocazione mediterranea dell’Europa, quale chiave di una nuova centralità̀ del nostro Paese nel progetto europeo. Trasformare il Sud in un hub naturale dell’Europa e dell’Italia sul Mediterraneo è anche la principale opportunità̀ per colmare le profonde disuguaglianze territoriali che ancora attraversano l’Italia e l’Ue. A tal fine, riteniamo che ai 5 obiettivi strategici del documento di indirizzo per le politiche di coesione 2021-2027 – Europa più̀ intelligente, Europa più̀ verde, Europa più̀ connessa, Europa più̀ sociale, Europa più̀ vicina – debba essere aggiunto un sesto asse: l’Europa mediterranea. In questo quadro, come ripetutamente richiesto dalle ONG/OSC, proponiamo di incrementare le spese per la cooperazione allo sviluppo fino allo 0,7% del PIL».
Si parla, quindi, di difesa comune (pag. 11), senza dire nulla a proposito della necessità di coordinare la produzione delle industrie di armamenti, per rendere efficiente e promettente in un quadro europeo la spesa militare (che senso ha mantenere più filiere di carri armati in EU quando USA e Russia ne hanno una sola? Come integriamo gli eserciti dei vari paesi UE se ognuno ha il suo fucile il suo carro, etc…?).
Inoltre, per la realizzazione dell’auspicata difesa comune, all’inizio di pag. 12, si parla di istituire «una tassa minima globale sulle aziende multinazionali», tralasciando, però, di spiegare come concretamente farlo.
Nella stessa pag. 12 il Programma tratta del ‘sostegno alla democrazia’, scadendo in slogan e, nello stesso tempo, lasciandosi maliziosamente intendere che qualcuno abbia in animo di attaccare la democrazia italiana.
A pag. 12-13, si afferma che la legge elettorale debba essere cambiata: «Ci impegniamo a proporre una nuova legge elettorale al Parlamento fin dai primi mesi della prossima legislatura, per superare la frammentazione e il trasformismo, per ridurre gli effetti distorsivi sulla rappresentanza legata al taglio dei parlamentari e per favorire la costruzione di forze politiche stabili e dotate di una riconoscibile identità».
La proposta risulta evanescente e manifesta una mera aspirazione, senza indicare concretamente quale legge elettorale si abbia in mente, non potendosi, al riguardo, considerare conclusivo l’accenno all’e-voting, privo, peraltro, di qualsivoglia considerazione delle problematiche normative e operative connesse. A parte che fare dipendere «la costruzione di forze politiche stabili e dotate di una riconoscibile identità» dalla legge elettorale appare alquanto ‘curioso’, visto che normalmente movimenti e partiti sono il riflesso di esigenze e aspirazioni della società, acquisendo in connessione una propria identità a prescindere dal sistema di rappresentanza.
A pag. 14 si auspica l’accelerazione e l’impegno per la gestione della transizione verde.
Nella specie, risalta la debolezza della premessa. Si riconosce che l’Europa al momento produce meno del 10% della CO2 mondiale: quindi, anche annullando siffatta produzione, è di tutta evidenza che non si avrebbe un grande impatto sul fenomeno cambiamento-climatico; senza contare che i costi economici della transizione ecologica si prefigurano per l’Europa di non poco conto e che l’aspetto, contrariamente a quanto si evince dal documento programmatico del PD, debba essere adeguatamente valutato.
In questa prospettiva, la carenza valutativa si coglie, per esempio, nell’accenno ai rigassificatori. In particolare, non si considera che essi, ancorché a fronte della crisi energetica siano essenziali, non possono corrispondere in linea di principio a una scelta strategica: infatti, oggi, servono a risolvere un problema di carenza energetica, oggettivamente rafforzato dall’esigenza di favorire il raggiungimento di una indipendenza dalle forniture di gas della Russia.
Inoltre, risulta del tutto carente la riflessione in merito alle modalità attraverso cui trasformare in ‘occasione storica’ lo sviluppo della transizione verde, posto che di fatto non si tiene conto nel documento della questione fondamentale relativa alla persistente diffusa produzione dell’energia rinnovabile con l’energia fossile.
Sempre a pag. 14, è corretta e stimolante la parte dedicata alla politica anti-Nimby, quando parla di dialogo costruttivo con i territori, da sviluppare nel caso di infrastrutture comuni. Rimane, però, oscuro il riferimento a un ‘fondo nazionale compensativo anti-Nimby’, senza specificare a carico di chi possa essere costituito.
A pag. 15 si tratta del tema ‘infrastrutture logistica e trasporti’. In evidente connessione con il tema, a pag. 36, si parla dello sblocco dei cantieri. Tuttavia, ancora una volta l’analisi e la parte operativa risultano evanescenti per mancanza di adeguate e convincenti specificazioni.
La debolezza sul punto appare di non poco conto, trattandosi di questioni senz’altro meritevoli di adeguato approfondimento, anche per la loro evidente connessione con il buon esito del PNRR.
Sempre nella pag. 15 si fa accenno genericamente a una legge-quadro sul clima e a un piano di adattamento al cambiamento climatico fino al 2050.
La proposta non risulta specificata nella sua operatività e la cosa si presenta alquanto inquietante, essendo chiaro il rischio che l’intervento, se non adeguatamente calibrato, finisca per tradursi nell’imposizione di vincoli eccessivi per la nostra economia e in un freno allo sviluppo dell’Italia.
Poco prima (pag. 15) rispetto a quest’ultima proposta si prospetta un piano per l’installazione di 85 GW di rinnovabili.
Di per sé l’idea è interessante, ma essa si indebolisce non poco per il fatto che nulla viene detto sul necessario potenziamento delle reti e sulle misure da adottare per snellire il connesso processo autorizzatorio, nonché sul consumo di suolo che le rinnovabili comportano e sulla necessità di progettare e realizzare impianti di accumulo di energia a causa dell’intermittenza della fonte energetica in questione.
Va altresì osservato che l’eventuale ricorso ai pannelli solari e alle pale eoliche si scontrerebbe con la necessità di utilizzare risorse non rinnovabili e con la creazione di una forte dipendenza dalla Cina. La proposta, quindi, finisce per risultare nella sua concreta articolazione e realizzazione insufficiente e affrettata, anche tenendo conto del fatto che non viene indicata la copertura finanziaria di un’altra proposta collegata, il cui contenuto sarebbe molto impattante per i conti dello Stato: ci si riferisce all’affermazione di volere fornire a costo zero alle famiglie «fino ad un massimo di 1.350 KWh/anno … (pari al 50% del consumo medio), l’energia elettrica …, mentre sulla parte di consumo eccedente i prezzi saranno comunque calmierati».
A pag. 15, facendo seguito a quanto si trova a pag. 7, dove si esprime la volontà di «semplificare e rendere più equo e progressivo il fisco per le famiglie e le imprese, in uno scenario di incentivi che prediligano la transizione ecologica e digitale», si parla di una riforma fiscale verde, che «promuova gli investimenti delle imprese e delle famiglie a difesa del pianeta e del clima e renda economicamente vantaggioso accelerare la transizione ambientale, attraverso la revisione e la stabilizzazione degli incentivi per la rigenerazione energetica e sismica degli edifici e l’estensione del piano “Transizione 4.0” agli investimenti green delle imprese».
Sempre in tema di fisco, si afferma (pag. 15) la volontà di introdurre una «premialità fiscale per le imprese a elevato rating ESG(ambientale, sociale e di governance)» e a pag. 17-18, si accenna a una «modulazione degli incentivi fiscali» come «leva da utilizzare per sospingere cittadini e imprese verso l’innovazione e la sostenibilità» e per sostenere «le attività di artigiani, piccole e medie imprese e professionisti», evocandoun «pacchetto di ulteriori misure» da mettere in campo «contrastare i maggiori costi derivanti dalla spinta inflattiva», come, per esempio, «un’opzione di autoliquidazione mensile delle imposte per partite IVA, autonomi e liberi professionisti e professionistein alternativa al sistema saldo- acconto e l’estensione della detrazione IRPEF del 50% a tutte le tipologie di start-up per le persone fisiche under 35».
A pag. 18, si trova una serie di enunciati che richiamano l’esigenza di «migliorare i rapporti tra Stato e contribuenti, semplificando drasticamente gli adempimenti attraverso il Codice tributario unico, lo sviluppo del fisco digitale, l’abolizione delle micro-tasse, e attuando la riforma della giustizia tributaria», l’obiettivo di ridurre «drasticamente l’evasione fiscale», di «accrescere la fedeltà dei contribuenti», proponendo l’estensione della «tracciabilità dei pagamenti, incrociare le banche dati, potenziare le Agenzie fiscali, premiare maggiormente i contribuenti leali, riformare la riscossione». A ciò fa seguito la declamazione altisonante secondo cui la proposta di riforma fiscale del PD sarebbe volta a «realizzare una riduzione del carico IRPEF, a partire dai redditi medi e bassi e una razionalizzazione delle agevolazioni fiscali, trasformando quelle di valenza sociale (spese sanitarie, scolastiche, etc.) in erogazioni dirette ai contribuenti, compresi gli incapienti».
A pag. 21, con riguardo al «mondo non profit, sotto il profilo poi degli oneri fiscali», si propone «l’eliminazione dei nuovi obblighi IVA previsti dal 2024 e il graduale superamento dell’IRAP», affermando la volontà di «riconoscere contributi a fondo perduto agli enti del Terzo settore, al pari delle imprese, per far fronte alle perdite registrate nelle due ultime annualità e per sostenere i costi per la progressiva ripresa delle attività»; mentre, a pag. 22, si fa accenno all’impegno di «portare avanti il negoziato con la Commissione europea sulla “Fiscalità di vantaggio per il lavoro al Sud”, affinché accompagni, come previsto al momento dell’introduzione, tutta la stagione di rilancio degli investimenti e ne massimizzi l’impatto occupazionale».
A pag. 24, si propone la creazione di un «Fondo nazionale per il pluralismo, l’informazione di qualità e il contrasto alla disinformazione, da finanziarsi tramite un prelievo sui ricavi da pubblicità online per le grandi piattaforme digitali»: il Fondo dovrebbe finanziare i «giovani giornalisti e le start up dell’informazione digitale»; mentre, «per le industrie culturali e creative» si propongono «incentivi fiscali, forme di agevolazioni nell’accesso al credito e promozione di strumenti innovativi di finanziamento».
A pag. 25, si fa riferimento a incentivi ed esenzioni fiscali per potenziare l’arte contemporanea, per sostenere «l’acquisizione, la produzione e la valorizzazione delle opere e l’incremento delle collezioni pubbliche, il riconoscimento giuridico delle professionalità delle arti visive, il sostegno alla committenza artistica anche attraverso nuovi incentivi fiscali e un Piano nazionale per l’architettura contemporanea, oltre a una nuova legge di settore», nonché per il lancio di un «Piano nazionale» incentrato sul «recupero» e sul «rilancio dei Borghi italiani, contrastando lo spopolamento delle aree interne e prevedendo»: queste ultime esenzioni fiscale dovrebbero specificamente favorire «le attività commerciali nei piccoli comuni», riqualificando «in chiave sostenibile» l’edilizia rurale storica, potenziando il «Piano nazionale Grandi progetti beni culturali» con la «promozione internazionale della Capitale italiana della Cultura». Inoltre, si accenna all’esigenza di attrarre investimenti «sullo sport attraverso defiscalizzazione e credito d’imposta e ridefinire, in senso redistributivo, le regole del comparto scommesse sportive».
A pag. 29, si richiama en passant l’attuazione della «riforma per il completamento del federalismo fiscale», così come la volontà di incidere sui costi della giustizia «investendo di più sugli incentivi fiscali».
Insomma, il documento programmatico del PD si caratterizza per un richiamo diffuso, non organico e ‘a pioggia’, alla leva fiscale, evocando una serie di defiscalizzazioni, incentivi ed esenzioni fiscali in riferimento a generici impegni in una grande varietà di campi.
In ogni caso, si percepisce abbastanza chiaramente che in larga misura gli interventi si tradurrebbero in un verosimile incremento della tassazione progressiva.
Rimane sullo sfondo l’idea di una copertura delle varie misure con il recupero dell’evasione fiscale, senza tenere in adeguato conto l’alea che sempre connota siffatta fonte di finanziamento.
Inoltre, si coglie la sostanziale ‘impermeabilità’ rispetto all’adozione di misure compensative tra i vari tributi, la cui realizzazione ça va sans dire favorirebbe non poco il rapporto fra contribuente e fisco.
La moltiplicazione degli incentivi fiscali, delle detrazioni, dei crediti fiscali, determina una evidentissima perdita di gettito, rispetto alla quale non si accompagna una quantificazione, sia pure di massima, né l’indicazione di dove reperire le risorse necessarie alla copertura del minor gettito. Si potrebbe credere che vi voglia provvedere a ciò con un inasprimento della progressività.
Una ultima considerazione concerne i principi di politica economica sottesi a queste proposte.
Il modello continua a essere quello della distribuzione di contributi personali, sotto varie forme giuridiche, ‘a pioggia’, o meglio con la tecnica detta dell’helicopter money. La dottrina economica ha manifestato numerosi dubbi sulla efficacia di tali tecniche, con alcune aperture nei confronti di una siffatta politica se emergenziale e temporanea, per sovvenire a momentanee crisi di liquidità di famiglie e imprese. La proposta del programma è invece strutturale e come tale inaccettabile.
A pag. 16 si approccia il tema del trasporto pubblico locale, prospettandosi una gratuità per giovani e anziani.
La proposta, però, sembra estemporanea e priva di adeguato supporto statistico.
Manca un riferimento alle fasce di età ed è evidente il rilievo della lacuna: basta pensare che l’eventuale esclusione dalla gratuità della fascia di età che usa di più il mezzo proprio vanificherebbe la misura.
Inoltre, sempre a pag. 16, si prospetta il varo di una legge sul consumo del suolo.
Ciò è senz’altro auspicabile, ma la proposta, così come formulata, è priva di specificazioni conclusive, la cui presenza è necessaria per qualificare qualsivoglia intervento normativo. Per esempio, se si volesse combattere siccità e la desertificazione, si dovrebbe dire come dissalare, se si volesse fare una campagna di riforestazione, bisognerebbe indicare dove e come agire, etc.
Inoltre, una tale legge inciderebbe pesantemente sullo ius aedificandi e sulle facoltà proprietarie, travalicando tutto il sistema della attuale legge urbanistica e spostando l’asse decisionale dagli enti locali attraverso i PRGC, gli strumenti di attuazione, i regolamenti edilizi etc. soggetti a consultazione pubblica e al ricorso giurisdizionale, a una istanza verosimilmente centralizzata che, di fatto, eserciti le facoltà proprietarie.
È la prefigurazione del trasferimento dei diritti proprietari di godimento edilizio della proprietà privata, già ritenuta incostituzionale in relazione al vecchio principio ormai abrogato della “concessione edilizia” in luogo dell’attuale “permesso di costruire”.
A pag. 17 si parla di regolamentare l’utilizzo di big data e dell’Intelligenza Artificiale (AI).
La formulazione della proposta parrebbe più volta ad arginare l’uso dello ‘strumento’ che a favorire il progresso nel settore e a valorizzarne le potenzialità nell’interesse dei cittadini. In particolare, dell’AI si evocano, soprattutto, le possibili implicazioni negative, al pari di quanto si può desumere dall’accenno ai pericoli derivati dalla digitalizzazione.
In definitiva, si ignorano le svariate implicazioni positive dal punto di vista dell’economia e dell’impatto sulla medicina, sulla pubblica amministrazione e nell’industria.
Emerge un approccio assai poco al passo con i tempi.
Traspare la tendenza a sottostimare i vantaggi derivanti dall’utilizzazione dello ‘strumento’.
L’approccio seguito è intrinsecamente poco scientifico.
Si parla, peraltro, tout court di educazione civica digitale per gli studenti, dimenticando che una buona percentuale di essi arriva all’università con gravi carenze in matematica. Si ignora completamente l’esigenza di dare buone basi in questa disciplina, ma anche in fisica, per avere uno studente/cittadino realmente digitale e, prima ancora, per dare corpo a una proficua educazione civica digitale.
A pag. 19 e a pag. 34, si prefigura una possibile riforma degli stage extracurriculari. Tuttavia, la trattazione di essi, da considerare vera e propria formazione, come se fossero lavoro o sfruttamento, appare poco sensato.
È chiara l’esigenza di avere stage davvero formativi: pensare, come si coglie nella proposta del PD, a un obbligo di retribuzione significa non avere chiaro il senso dello stage curricolare (che consente di maturare Crediti Formativi e che deve essere un momento di formazione). In certi ambiti, peraltro, è molto difficile trovare per gli studenti opportunità di stage anche se non retribuiti (aree umanistiche, per esempio, ma non solo).
L’ipotesi di prevedere una necessaria retribuzione, quindi, potrebbe non essere quello di avere tanti stage curricolari retribuiti, bensì di averne molti meno. Va, del resto, considerato che già ora è possibile dare una indennità agli stagisti: presupporre un obbligo di retribuzione, porterebbe verosimilmente a non potere attivare tutti quegli stage oggi non retribuiti, ma utilissimi per la formazione.
A pag. 19 si trova anche un accenno all’idea di promuovere una «legge che riconosca il valore legale erga omnes del trattamento economico complessivo dei contratti collettivi firmati dalle organizzazioni maggiormente rappresentative per debellare i “contratti pirata” e che introduca un salario minimo contrattuale, seguendo il modello tedesco, nei settori a più alta incidenza di povertà lavorativa, con una soglia minima affidata alla proposta delle parti sociali e che comunque rispetti i parametri della direttiva europea (attualmente per l’Italia, secondo alcune stime pari a circa 9 euro lordi orari».
La proposta, così come formulata, si presenta velleitaria, non tenendo conto che l’estensione per legge dell’efficacia erga omnes dei CCNL si scontrerebbe attualmente con la mancata attuazione della previsione costituzionale (art. 39) in merito al riconoscimento delle associazioni sindacali.
A pag. 20 si parla specificamente di lotta al precariato e all’evasione fiscale enfatizzandosi il ‘rafforzamento dei controlli’ con la finalità di diminuire la pressione fiscale su tutti.
Si dimentica che secondo le stime ISTAT, e anche le stime indipendenti di Schneider e altri, l’evasione è diminuita significativamente dal 2000 al 2022, senza che ciò abbia portato a una riduzione della pressione fiscale. Per contro, va osservato che si è avuto un aumento della spesa pubblica, segnata, peraltro, da una forte carica di effimero, come nel caso dei vari bonus (dagli 80 euro di Renzi ai più recenti monopattini, al 110%, etc).
La debolezza operativa delle proposte contenute nel documento programmatico del PD emerge con particolare evidenza anche da quanto si trova indicato a pag. 22 e 23, riprendendosi il tema-scuola accennato a pag. 9-10.
Si riconosce genericamente la centralità della scuola e si sostiene giustamente la necessità di allineare gli stipendi degli insegnanti a quelli dell’Unione europea. Va, però, osservato che stranamente il PD parrebbe ricordarsi della questione solo oggi, in procinto delle elezioni, ancorché abbia governato, negli ultimi 12 anni, per 11 anni; in ogni caso, non si forniscono dettagli in merito al finanziamento della spesa e, soprattutto, non si considera l’esigenza di ancorare la retribuzione alla qualità del servizio.
Più in generale, nella proposta in merito al tema-scuola si coglie una imbarazzante povertà e un favore per scelte di stampo autoritativo.
Risalta l’affermazione che in «Italia un bambino su dieci non frequenta la scuola dell’infanzia (3-5 anni). Ciò crea le prime odiose diseguaglianze», precisandosi che si vorrebbe risolvere il problema e cancellare «questa discriminazione rendendo obbligatoria la scuola dell’infanzia». È evidente che si omette un dato di fatto: una discriminazione si concretizza proprio nel momento in cui un certo comportamento viene imposto e non quando sia il risultato di una libera scelta. Non si tiene conto che una quota di chi non frequenta l’asilo è da ascrivere a una libera scelta. Quanto, poi, al modo in cui si intenderebbe risolvere l’asserita obbligatorietà, rimane del tutto indefinito come possa farsi: forse, senza parità economica tra scuole statali e non statali? Ma, in questo caso, bisognerebbe concludere che chi ha steso il programma del PD viva nelle nuvole, visto che il 48% delle scuole dell’infanzia è non statale. Ancora peggiore appare, comunque, la logica sottostante alla proposta: si riconosce implicitamente che la Pubblica amministrazione non adempie al suo obbligo di garantire un posto negli asili a tutti e, quindi, invece di operare perché il servizio venga assicurato compiutamente con soldi statali (che non vengono menzionati) o con adeguata considerazione della parità, si rende in modo semplicistico e affrettato obbligatoria la frequenza, anche di chi, per sua libertà e responsabilità educativa, non la volesse. Peraltro, si giunge a questa aberrazione toccando la libertà di scelta educativa delle famiglie.
Senza contare, inoltre, l’assenza di sensibilità, se non una vera e propria contrarietà desumibile dal documento programmatico del PD, con riguardo all’intero sistema della formazione tecnico-professionale. Non una sola riga viene dedicata al tema fondamentale del potenziamento dell’istruzione e formazione tecnica e professionale, arrivandosi, come si è già evidenziato, a proporre, a pag. 19, del programma elettorale «l’obbligo di retribuzione per stage curriculari e l’abolizione degli stage extra-curriculari, salvo quelli attivati nei 12 mesi successivi alla conclusione di un percorso di studi». Per avere l’esatta percezione della portata devastante di siffatta proposta, occorre ribadire che gli stage curriculari sono quelli previsti innanzi tutto per le scuole di istruzione tecnico professionale e sono strategici per rendere concreta la formazione di uno studente. Già oggi è assai difficile trovare un imprenditore ovvero un professionista disposto a farsi carico della formazione in azienda o in uno studio di uno studente e, seguendo la logica della proposta, è logico attendersi che il suo effetto sarebbe di rendere pressoché impossibili gli stage formativi a fronte dell’obbligo di un imprenditore di retribuirli. Egualmente grave si prospetta la soppressione degli stage extracurriculari che sono fondamentali per la formazione successiva del diplomato e che peraltro già oggi sono retribuiti.
La totale inadeguatezza della proposta-scuola emerge, comunque, dalla mancanza di considerazione in merito all’esigenza di aiutare seriamente gli studenti in difficoltà e alla valorizzazione dei talenti, di sviluppare l’autonomia scolastica, di incidere nel senso, quanto meno, di una riduzione sul carico burocratico degli insegnanti, sulla valutazione degli apprendimenti, sulla sperimentazione del liceo a quattro anni, sull’importanza formativa del lavoro.
A pag. 23-24 il Programma affronta il tema dell’Università. Però, sempre con toni generici. Emblematicamente, quando si dice di volere «consolidare le risorse finalizzate al reclutamento dei docenti universitari per recuperare il lungo blocco del turn-over, separando le modalità di accesso al ruolo e di reclutamento dall’esterno da quelle per l’avanzamento di carriera secondo i principi di trasparenza, responsabilità, merito e valorizzazione dei talenti», sottolineando che si vuole «evitare che alcuni meccanismi di distribuzione di finanziamento alle università finiscano per accrescere i divari territoriali».
Nelle pieghe dell’altisonante riferimento alla ‘responsabilità, al merito e alla valorizzazione dei talenti’, parrebbe prefigurarsi un ‘percorso’ nella carriera dei docenti tutto interno a un singolo ateneo, con il risultato inevitabile di favorire l’anzianità, piuttosto che il declamato merito. Peraltro, si dimentica che un siffatto sistema di reclutamento deprime la competizione fra atenei: li chiude in se stessi.
Nella proposta, in ogni caso, si coglie carenza di considerazione in merito a quanto oggi accade, anche come conseguenza di un distorto uso del sistema delle abilitazioni dei docenti universitari nella struttura da esso di fatto acquisita, in cui prevale la meccanica valutazione di parametri formali, a scapito della qualità degli abilitandi.
In definitiva, dal documento non traspare adeguata consapevolezza in merito alla scarsa attrattività del nostro sistema universitario (pochissimi studiosi stranieri si trasferiscono in Italia) e alla costante fuga di cervelli verso l’estero (che non si combatte solo migliorando il welfare degli studenti).
A pag. 26 si affronta il capitolo Sanità.
Si afferma che il territorio è sguarnito dei fondamentali servizi di prossimità.
Un principio basilare di politica sanitaria è quello secondo cui nessuna riforma sia attuabile se, prioritariamente, non si organizza l’offerta di salute sul territorio. Questo principio parrebbe, in concreto, assente nel documento del PD. Si enunciano prospettive di per sé sensate, ma, peraltro, risulta inspiegabile perché, dopo 11 anni di Governo, le si ‘scopra’ solo ora.
In definitiva, la volontà di affrontare il tema-sanità non viene sostenuta da un’attenzione significativa per l’attivazione dei punti di primo soccorso territoriali, per l’ammodernamento e l’implementazione del servizio 118, per il ricorso all’elisoccorso, per il potenziamento dei poliambulatori specialistici, per l’organizzazione dei Day Hospital e dei Day Surgery. Altrimenti, è ovvio che i pazienti, se non trovano risposte nei servizi di prossimità, si rivolgono ai centri ospedalieri, intasando il pronto soccorso, sovraccaricando le liste d’attesa, dando vita ad un gran numero di ricoveri inappropriati con un livello di soddisfazione dell’utenza molto basso e uno spreco di risorse notevole.
Non si avverte neppure un’attenzione verso l’esigenza di valutare la dimensione ospedaliera. Non si sviluppa il tema dell’introduzione, nella cultura della salute, di un modello di ricovero organizzato per livelli di intensità di cura piuttosto che sulla presa in carico per patologia: un modello basato su ricoveri brevi e multi-specialistici impostati su livelli di intensità assistenziale differenziata (dall’emergenza con la occupazione di posti letto ad altissima intensità fino alla lungo degenza in posti letto a medio-bassa intensità con costi assai più contenuti).
Tutto ciò risulta nel documento programmatico del PD evanescente, privilegiandosi, lo si ripete, l’enunciazione di una serie di buoni propositi, validi, in definitiva, per ogni stagione (elettorale).
Più nello specifico, colpisce l’assenza di prospettiva per aggredire incisivamente le seguenti criticità di cui soffre la sanità italiana:
COPERTURA FINANZIARIA:
Una copertura finanziaria per gli aumenti salariali per gli addetti al settore sanitario. Per essere credibile il programma dovrebbe riallineare la percentuale di PIL destinato alla Sanità dall’attuale 8,6 al 9,9 per cento della media UE (in Germania l’11,7%) (solo a titolo di esempio: bisognerebbe valutare qual è il costo del dimezzamento delle liste di attesa).
Nessun accenno viene fatto, inoltre, a come integrare la sanità pubblica con quella privata.
FUGA MEDICI ITALIANI ALL’ESTERO:
Nessun accenno si trova alla emorragia continua (almeno 2.000) di medici che espatriano ogni anno, attratti da migliori salari, ma soprattutto da migliori condizioni di lavoro.
SPECIALIZZAZIONI:
Un semplice aumento dei posti disponibili non risolve affatto il problema della carenza di medici in Italia: vi sono specialità che non colmano i posti a disposizione come talune specialità chirurgiche e altre i cui posti sono insufficienti; il tutto andrebbe commisurato agli sbocchi lavorativi, che non possono essere calcolati solo sul settore pubblico come avviene ora, ma anche su quello privato.
TERAPIE INTENSIVE:
Il documento programmatico del PD parrebbe non avere compreso che lo snodo più drammatico della recente Pandemia sia stato quello del numero di posti letto in terapia intensiva. Ciò denota una macroscopica ignoranza del problema, che, peraltro, potrebbe ripresentarsi. I posti letto di TI sono 8,6 per 100000 abitanti in Italia, a fronte di 33,9 in Germania e 16,3 in Francia.
OSSS:
Nel documento programmatico del PD non si trova alcun accenno alla necessità di accelerare al massimo la creazione dell’Operatore Socio Sanitario Specializzato (OSSS), come viatico per affrontare il problema della Medicina Domiciliare, vero snodo della Medicina territoriale.
AZIENDALIZZAZIONE:
Nessun accenno viene fatto allo svilimento della dimensione professionale del personale medico e infermieristico indotto dall’eccesso di aziendalizzazione. Se si vuole davvero, come si afferma, rivalutare la figura professionale del medico bisogna reintrodurlo seriamente nel governo clinico.
Si arriva così a pag. 27 dove si trova una serie di ‘promesse’ più specifiche e chiare con riguardo ai ‘diritti’ e all’impegno per riconoscerli legislativamente.
Si accenna alla riproposizione acritica del Ddl ZAN, dello Ius Scholae, della legge sul fine vita.
Questi tre riferimenti sono nel programma del PD chiarissimi, ancorché si prospettino con una caratterizzazione assolutizzante: non si tiene conto, cioè, dell’esigenza di confrontarsi, per la loro delicatezza, con chi si approccia alle questioni sottostanti con diverse sensibilità.
A pag. 28 si sostiene l’abolizione della Bossi-Fini, ma non si capisce con quali misure la si vorrebbe sostituire; a meno di non considerare ‘conclusivo’ l’accenno generico nell’incipit del documento programmatico all’esigenza di dare vita a politiche immigratorie da ‘ridiscutere’ con l’Europa.
A pag. 29 si accenna genericamente alla volontà di realizzare una riforma degli enti locali, ma, ancora una volta, senza alcuna specificazione conclusiva.
A pag. 29 e a pag. 30, si affronta il tema della giustizia, con una serie di proposte tutt’altro che convincenti.
Questa parte del programma si divide idealmente in 4 parti.
La prima (§§ da 1 a 3) riservata all’organizzazione del sistema giustizia.
La seconda (§§ da 5 a 9) dedicata al problema delle mafie.
La terza (§§ 11 e 12) dedicata a problematiche penitenziarie.
La quarta (§13) dedicata alle forze dell’ordine.
A queste si aggiungono due proposte estemporanee dedicate alla istituzione della Alta Corte di Giustizia (§ 4), e alla liberalizzazione della coltivazione della marijuana per uso personale (§ 10).
Pur senza entrare nel merito tecnico delle soluzioni ai problemi, un programma elettorale dovrebbe tracciare le linee strategiche e politiche che si intendono seguire nei singoli settori, per raggiungere l’obbiettivo che risolve il problema, cioè la modifica in meglio della situazione quo ante.
In linea generale, invece, il Programma del PD non indica veri obbiettivi strategici né prende posizione in merito a scelte fondamentali di politica giudiziaria e della sicurezza. Esso si limita a enumerare i malfunzionamenti del sistema (giustizia lenta cioè eccessiva durata dei processi e eccessivo numero degli stessi, costi del sistema, eccesso di fattispecie di reato) e, quindi, a proclamare che la soluzione è l’accelerazione dei processi, la loro deflazione, la depenalizzazione di reati, l’aumento degli incentivi fiscali per favorire l’accesso alle ADR.
Si confonde, all’evidenza, la meta finale dell’intervento, cioè l’inversione di tendenza, con l’intervento necessario a realizzarla.
Si tratta di pure petizioni di principio. Infatti e ad es., la conclusione (far durare di meno i processi) nulla aggiunge alla prima affermazione (la giustizia è lenta) essendo in questa ultima già incorporata.
Non siamo, in sostanza, innanzi a vere proposte, ma solo alla sottolineatura, a contrario, di quale sia il problema.
Il § 1, dedicato ai problemi in generale del settore giustizia, opera una confusione inestricabile tra le problematiche della giustizia civile e di quella penale.
Si confonde la depenalizzazione che riguarda la giustizia penale, con la deflazione del contenzioso attraverso l’incentivo all’uso delle ADR, che riguarda la giustizia civile. Chiaro segno di confusione mentale nel non comprendere che le due giustizie hanno presupposti, funzionamento, procedure e cultura totalmente diverse e ciascuna di esse va considerata e trattata come una materia autonoma e a sé stante. La funzione del “decidere” non è sempre la medesima, varia in rapporto ai parametri (le norme) in base ai quali si deve decidere. Considerazioni queste che sono alla base della necessità, sottolineata, da decenni della separazione delle carriere, se non dei due ordini giudiziari.
Sembra di capire che la deflazione dei processi dovrebbe essere assicurata nel penale, dalla depenalizzazione, nel civile dagli incentivi fiscali all’uso delle ADR.
Il rifiuto di indicare elementi di politica giudiziaria nella materia pena è testimoniato dalla infelice inciso “ove necessaria” riferito alla depenalizzazione, che non dice assolutamente nulla sui criteri di politica giudiziaria cui dovrebbe rispondere. È evidente, infatti, che se non è necessario, sarà inutile depenalizzare ai fini di migliorare la giustizia. Ma cosa è necessario? Dal proseguo del programma sembra di capire solo la depenalizzazione dei reati legati alla produzione per uso personale della cannabis.
La depenalizzazione, in sé, non è nemmeno chiaramente proposta, perché si auspica timidamente solo una «una riflessione sulla circostanza che non tutte le “violazioni” debbono trovare una risposta nel processo penale». Quindi, non un programma di depenalizzazione con l’indicazione quanto meno, di categorie generalissime di reati depenalizzabili, ma più precisamente il titolo di un futuro convegno in una amena località.
Nel merito, si osserva peraltro che la riduzione delle fattispecie penali, abnormemente cresciute negli ultimi decenni sulla scorta di una cultura giustizialista alimentata dalla sinistra per ricorrenti motivi politici, è in astratto sicuramente auspicabile solo se accompagnata da una chiara visione di politica giudiziaria, che nella specie manca. A tal proposito il testo mostra di non avere le idee chiare. Infatti, non chiarisce se la condotta attualmente rilevante penalmente dovrebbe essere deprivata di qualsiasi antigiuridicità (in parole povere andare esente da una qualsiasi punizione personale o pecuniaria) oppure derubricata a illecito amministrativo, tributario, contabile o civile. In questo caso, atteso che il nostro è uno stato di diritto, la depenalizzazione così banalmente ipotizzata non farebbe che spostare il carico giudiziario dal giudice ordinario penale ai giudici civili, amministrativi, tributari o contabili, atteso che comunque la Costituzione garantisce la difesa contro gli atti della P. A.
Il programma procede analogamente con una sequela di successive pseudo proposte, non a caso tutte definite dal modo infinito (depenalizzare …, costruire …, intervenire sui costi … etc.) che indica una azione generica e indifferenziata, quasi un semplice auspicio, senza specificare i fini, i modi, i tempi, i costi di un qualsiasi intervento riformatore, la cui individuazione, peraltro, non è nemmeno tentata.
Ad es., nel medesimo § 1), l’obbiettivo di «costruire nuovi edifici destinati ad accogliere i Tribunali» non lascia intravvedere alcuna soluzione praticabile, dato che non ipotizza dove possano essere reperite le risorse necessarie non solo alla costruzione, ma soprattutto alla gestione dei nuovi immobili (personale, spese correnti etc.). Peraltro, l’affermazione è in palese contraddizione con l’auspicio formulato circa la depenalizzazione (che diminuirebbe i processi penali e quindi richiederebbe meno processi e meno edifici).
L’intervento sui costi della giustizia è contraddittorio e controproducente.
La riduzione dei costi sembra riferirsi a quelli sostenuti dalle parti per accedere al sistema giustizia civile, tanto che si ipotizzano incentivi fiscali per favorire il ricorso alle ADR, quindi deflazionare il numero di processi dinanzi ai giudici togati. In disparte il fatto che quindi la misura è limitata al settore civile e non interessa il penale, l’ipotesi determina una minore entrata, cioè un aumento del costo complessivo del servizio a carico dello Stato, che costituisce effetto-paradosso rispetto all’obbiettivo di ridurre il contenzioso perché lo favorisce nella fase del fallimento della ADR.
Il programma avrebbe dovuto, piuttosto, occuparsi del drammatico problema degli errori giudiziari prima della condanna (ingiusta detenzione preventiva), ammontanti, dal 1992 al 31 dicembre 2021, a 30.017, circa 1.000 all’anno (https://www.errorigiudiziari.com), con una spesa complessiva di indennizzo per ingiusta detenzione di € 819.000.000. A ciò è connesso il problema, tralasciato nel programma, della irrisorietà dell’indennizzo per ingiusta detenzione, normalmente determinato dal giudice, secondo una media giurisprudenziale, in € 235,00 al giorno.
A questi casi di errore pre-sentenza, si aggiungono nel medesimo periodo i 214 errori giudiziari veri e propri di maggiore gravità e drammaticità, cioè lunghi periodi detentivi scontati a seguito di una sentenza di condanna, poi revocata dopo decine di anni, prosciogliendo il condannato (ad es. casi Gullotta, Massaro, Zuncheddu etc.). Casi gravissimi, in media 7 all’anno, con un risarcimento erogato nel periodo 1991/2021 di € 76.255.214.
Ancora: non vi è nel programma alcun accenno al rimborso dei costi di difesa, talvolta dell’ordine di centinaia di migliaia di euro, affrontati da imputati poi del tutto prosciolti, oggi risarciti in tre rate annuali per un massimo di € 10.500,00, somma decisamente irrisoria per 3, talvolta 5 gradi del giudizio, per l’anticipazione di compensi ai consulenti, per accertamenti tecnici, etc.
Quanto ai costi del sistema sostenuti dallo Stato, l’ipotesi non incide sulle cause della spesa, ma si riduce a un semplice spostamento della spesa dai capitoli del Ministero della Giustizia a quelli del MEF. L’incentivo fiscale ipotizzato è infatti esso stesso un costo, traducendosi in minore entrata.
Concludendo su questo § 1), resta difficile commentare ciò che ambiziosamente è definito Programma, poiché l’analisi contenutistica del testo denuncia una assoluta povertà, se non carenza, di contenuti.
Il Programma si limita in sostanza ad auspicare che le cose andranno meglio quando, e se, si raggiungeranno obbiettivi di accelerazione, deflazione del contenzioso, minori costi, forse depenalizzazioni, in un calderone tra penale e civile, senza indicare nessuno strumento idoneo a raggiungere questi obbiettivi.
Il § 2) segue lo stesso leit motiv, indicando non un metodo, ma un obbiettivo scontato (completare la digitalizzazione …, adeguare l’organizzazione e l’impostazione dell’intero comparto …, creare banche dati …)
Al proposito di questi due ultimi obbiettivi, va osservato che essi costituiscono il tributo al digitale necessario per non sembrare obsoleti, ma senza che si abbia una consapevolezza precisa di come utilizzare gli strumenti informatici per reingegnerizzare i procedimenti giudiziari. E infatti, l’unica misura proposta è la creazione di nuove banche dati, anche se l’attuale disponibilità di banche dati copre praticamente l’intera gamma delle informazioni giudiziarie.
Nessuna proposta sull’uso delle nuove tecnologie come la Intelligenza Artificiale, la giurisprudenza predittiva basata sui precedenti informatici etc.
Il § 3) ha un contenuto che nulla ha a che vedere con un programma di governo. Enumera, infatti, una serie di attività puramente amministrative di ordinaria amministrazione (completamento dell’Ufficio del processo con uomini e mezzi, reclutamento di magistrati essendo i ruoli sotto organico per gli improvvisi pensionamenti dei magistrati a 70 anni), che nulla hanno a che vedere con un programma elettorale, presentandosi come promesse di sapore vagamente clientelare (stabilizzazione dei precari …)
In questo paragrafo, però, è presente un abbozzo di proposta politica: la formazione comune tra avvocati, magistrati inquirenti e giudicanti, definito “modello più aperto”. La formazione di questi addetti alla Giustizia fa ormai parte dell’esperienza comune alle varie categorie, attraverso il sistema universitario e delle scuole di specializzazione e formazione, mentre la così detta circolarità delle esperienze è l’esatto contrario di ciò di cui la giustizia ha oggi bisogno, cioè di una maggiore specializzazione e di una netta separazione di funzioni tra gli operatori del diritto, che eviti commistioni e gestioni concordate e autoreferenziali delle problematiche giudiziarie. Il programma prevede, invece, un calderone indistinto e confuso e quindi pericoloso, come sempre è pericolosa la confusione nei procedimenti istituzionali.
Si tratta di un indirizzo politico inquietante completato da una delle pochissime proposte del testo, quella della istituzione di una Alta Corte competente sugli addebiti disciplinari dei magistrati e sulle nomine contestate, di cui al § 4.
Il § 4 contiene la proposta della creazione di un nuovo giudice speciale a livello costituzionale: per l’appunto, una Alta Corte per i provvedimenti disciplinari a carico di magistrati (non è chiaro se anche quelli amministrativi, tributari e contabili).
L’ipotesi parrebbe rispondere a un progetto di smantellamento della giustizia disciplinare domestica che implicitamente non si ritiene abbastanza autonoma nei suoi giudizi e che, quindi, si pensa di sostituire con un nuovo organo giudiziario costituzionale ad hoc.
Sarebbe stato necessario, piuttosto, affrontare alla radice il problema di una eventuale condizionalità della giustizia domestica, vale a dire il sistema delle correnti di cui ha sofferto il CSM, senza che la recente riforma Cartabia abbia inciso a fondo.
Si avverte nella proposta un certo fastidio per la giurisdizione del giudice amministrativo sulle procedure di nomina che, spessissimo, è stata in grado di impedire lo stravolgimento delle regole. Da tempo, infatti, il CSM propone di sottrarre la giurisdizione al Giudice Amministrativo per consegnarla esclusivamente a se stesso e al giudice ordinario.
Il § 5) contiene una proposta del tutto fuori luogo in sede di programma elettorale, perché incide sulle competenze dell’UE, cioè l’uso del regolamento in luogo della direttiva per l’armonizzazione degli ordinamenti e la cooperazione internazionale in materia di riciclaggio e di “trafficanti” (termine generico che sembra riferirsi al traffico di droga)
L’istituzione di una nuova Agenzia europea, contenuta nel medesimo §, risponde alla tradizionale politica istituzionale della sinistra che crea centri di potere svincolati dal circuito democratico della P. A. governativa, quindi soggetta al controllo democratico dell’elettore tramite il Parlamento.
Con il § 6 inizia la parte dedicata alla sicurezza.
Il paragrafo contiene una proposta accattivante, ma demagogica: quella della elaborazione di un piano nazionale contro le mafie.
L’apparato legislativo finalizzato alla repressione del fenomeno mafioso è ampio, complesso e il più efficiente nel mondo occidentale. Le competenze della DNA, dell’ANAC, dei responsabili della prevenzione della corruzione e della trasparenza nella P. A., degli ODV nelle imprese private, costituiscono già una rete che risponde alle direttive e agli indirizzi della stessa DNA e dell’ANAC. Non si comprende, poi, chi dovrebbe non solo elaborare, ma soprattutto attuare il fantomatico piano, con quali e quante interferenze con le attività correnti della magistratura inquirente e delle forze dell’ordine.
Il richiamo ai lavori degli Stati Generali della lotta alle mafie del 2017 è un riferimento culturale, ma non operativo. Peraltro, essendo quasi totalmente sconosciuto ai cittadini elettori, risulta del tutto inutile e fuorviante citarlo in un programma elettorale.
Seguono ai §§ 7 e 8 pure enunciazioni di intenti per sé lodevoli, tra cui spicca l’indicazione (§ 7) di rafforzare il contrasto alle infiltrazioni mafiose negli enti locali, riformando la legge sullo scioglimento dei Comuni per mafia: senza alcuna specificazione, però, dell’indirizzo politico generale che potrebbe essere seguito in una riforma, il proposito si rivela a un tempo generico e per ciò stesso potenzialmente pericoloso nei confronti dell’autonomia garantita dall’art. 5 della legge ai comuni.
Il § 9 si occupa di segnalare la necessità di tutelare i giornalisti minacciati dalla criminalità organizzata: intento lodevole. Non condivisibile è invece l’impegno assunto di battersi per il “contrasto alle così dette querele bavaglio”. Il diritto alla informazione e alla cronaca, come anche a svolgere il giornalismo d’inchiesta, come tutti i diritti deve essere armonizzato comparativamente con i diritti degli altri soggetti interessati. La limitazione per questi ultimi nell’azione giudiziaria contro notizie ritenute calunniose o diffamanti, comunque non vere, non si presenta sufficientemente equilibrata perché può introdurre, di fatto, una licenza di calunnia, potenzialmente devastatrice, e contro la quale spesso nemmeno il risarcimento pecuniario riesce a restituire la dignità e l’onore lesi.
Il § 10 contiene la proposta di legalizzare l’autoproduzione di cannabis per uso personale, pretestuosamente legata alla lotta contro la mafia (che invece come è noto opera nel mercato delle droghe pesanti).
Il § 11 contiene l’indirizzo verso la valorizzazione degli strumenti di giustizia riparativa e le misure alternative al carcere. Si osserva che è del tutto assente l’attenzione alle vittime dei reati. La preoccupazione del PD, in questo, come nel successivo § 13 sul trattamento carcerario, è esclusivamente per i condannati, il che è moralmente lodevole se in sé considerato, ma lo diviene meno quando, in comparazione con le posizioni delle vittime, oblitera queste ultime come se la punizione del reo fosse una questione solo tra il condannato e lo Stato.
Nella proposta contenuta nel § 12 appare evidente questa sproporzione tra gli interessi. La giusta preoccupazione di assicurare un percorso riabilitativo finisce con l’essere prevalente rispetto ai bisogni e interessi degli altri consociati.
Si auspicano accordi con imprenditori, non a caso definiti “responsabili” come se coloro che non aderissero alla iniziativa fossero “irresponsabili”, per garantire al condannato uno sbocco occupazionale. La insufficienza del programma elettorale si coglie anche in questo caso nel quale l’auspicio dovrebbe essere giudicato solo alla luce di un chiaro indirizzo politico di bilanciamento con la situazione assai difficile della occupazione in Italia. Sarebbe ben bizzarro un sistema nel quale si garantisse una occupazione a un condannato a scapito del mondo del lavoro esterno.
Ancora una volta un obbiettivo del programma si appalesa generico e inconsistente, meritevole di un giudizio che sarebbe possibile solo a condizione di una maggiore specificazione dell’indirizzo di politica penitenziaria, e del lavoro, che si voglia adottare.
Analogamente inconsistente è il richiamo a una riforma delle professioni penitenziarie. Il riferimento alle “professioni penitenziarie” e non al “personale penitenziario” rinvia anche a figure di complemento del sistema non inquadrate nei ruoli della Amministrazione penitenziaria, ma fa intendere che una radicale riforma potrebbe anche coinvolgere lo stesso sistema delle carceri o della detenzione in genere, per esempio con il coinvolgimento dei privati. O almeno, la genericità della formula non fa comprendere quale sia il modello che il PD intende proporre.
Infine il § 13 sulla sicurezza è infarcito da una serie di luoghi comuni e frasi fatte quali: la necessità di investire in programmazione, investimenti, personale e risorse economiche come anche sulla professionalità delle forze di polizia, o adeguare gli organici alle necessità del territorio, promuovere politiche europee e accordi con paesi terzi per la collaborazione nella prevenzione e repressione della criminalità organizzata, investire nell’uso di tecnologie innovative e nell’intelligence; il tutto, sempre con il taglio della genericità e senza indicare strategie e politiche di indirizzo, né come reperire le risorse.
Sostanzialmente indefinita, inoltre, appare la proposta di mettere mano al sistema di informazioni per la sicurezza della Repubblica (i c.d. servizi segreti di cui alla l. n. 124 del 2007) per una non meglio identificata lotta alle interferenze esterne e per riorganizzare il sistema.
In conclusione, per un verso, ci troviamo in massima parte dinanzi a un non-Programma, privo di un minimo di elementi che indichino le strategie di politica giudiziaria, penitenziaria e di sicurezza, di una qualsiasi indicazione sia pure approssimativa delle risorse necessarie e della conseguente allocazione nel complesso della spesa pubblica: in sostanza, di tutti quegli elementi che trasformano mere intenzioni in un programma politico.
Emblematicamente, questo cliché si coglie a pag. 31, dove nel documento programmatico si afferma che la «sicurezza è un bene comune ed indivisibile, che può essere goduto solamente insieme agli altri, perché non ci si può sentire sicuri da soli», aggiungendosi che «il ruolo delle forze dell’ordine è cruciale» e che il «il controllo che garantisce la sicurezza è un servizio pubblico, che richiede programmazione, investimenti, personale e risorse economiche». A queste declamazioni di principio, su cui risulta difficile non essere d’accordo, segue l’affermazione di volere perseguire l’obiettivo di «investire su questi fattori, perché una società più protetta è una società più sicura, nella quale i cittadini si sentono più liberi e sono anche più solidali».
Ancora una volta, dunque, nulla di concreto emerge in merito all’indicazione delle modalità di intervento, ai costi e all’individuazione delle risorse necessarie, nonché al loro reperimento.
Il programma si conclude con un affastellarsi di slogan su proposte per donne e giovani, quasi sempre (ma non sempre) condivisibili in linea di principio, ma sempre carenti in merito alla copertura finanziaria, limitandosi la risposta sul punto, tutt’al più, a un diffuso riferimento all’aumento della tassazione, a cominciare dalla prospettata idea di introdurre «una dotazione di 10.000 euro, erogata al compimento dei 18 annisulla base dell’ISEE familiare, per coprire le spese relative alla casa, all’istruzione e all’avvio di un’attività lavorativa», precisandosi che i «costi di questa misura saranno prevalentemente coperti dagli introiti aggiuntivi derivanti dalla modifica dell’aliquota dell’imposta sulle successioni e donazioni superiori ai 5 milioni di euro (pari allo 0,2% del totale delle eredità e donazioni in Italia)».
È di tutta evidenza che la misura non appare sostenuta da una realistica valutazione di quanto necessario a renderla operativa: se non altro, perché non tiene conto del numero di giovani potenzialmente fruitori ogni anno. Per esempio, i nati nel 2004 sono stati 562.599: ciò implicherebbe che la misura immaginata potrebbe verosimilmente attuarsi o con una massiccia compressione del numero dei fruitori o con un abnorme aumento della pressione fiscale in materia. Infine, non può non rilevarsi che il Programma nel suo complesso, in tutte le sue proposte, non esprime idee da cui si possa desumere una concreta strategia di sviluppo del Paese, fatta eccezione per il ripetitivo riferimento alle potenzialità della transizione verde. Manca, in particolare, una valutazione degli effetti positivi sullo sviluppo economico che potrebbero derivare da un’azione decisa sul piano fiscale, come, per esempio, quelli che potrebbero essere innescati dall’introduzione graduale della flat tax.