La Scuola Italiana è e rimane un presidio fra i più presenti e più efficienti sul territorio. La sua capacità di adeguarsi alle mutevoli caratteristiche del contesto, in virtù delle elevate professionalità che vi operano, è riconosciuta, e continua a formare giovani che occupano posizioni operative di sicuro livello tecnico e professionale, e che accedono alla formazione terziaria con ottime possibilità di successo e di impiego nei campi della progettazione e della ricerca. I nostri talenti sono sempre stati e sono tuttora apprezzati nel mondo accademico europeo ed internazionale.
Il merito è certo delle nostre università, ma non solo: va equamente ripartito fra tutta la filiera dell’istruzione e della formazione.
Lambiscono il perimetro di queste eccellenze unanimemente riconosciute altre situazioni che vanno dalla tranquilla sufficienza quanto a competenze in uscita dalla Scuola Secondaria di Secondo Grado a casistiche di vera criticità, di rischio reale di dispersione implicita o esplicita e di insuccesso formativo. Queste ultime sono andate via via crescendo negli ultimi vent’anni, anche a seguito di azioni di riforma e di interventi non sempre coordinati e non sempre coerenti nella loro sostanza. È mancato talvolta, diciamolo francamente, uno studio preliminare, una ingegnerizzazione del problema che si andava ad affrontare, a partire dalla scuola dell’Autonomia, proseguendo con la scuola delle tre I e giungendo all’elevamento dell’obbligo scolastico fino ai sedici anni; per quanto riguarda l’istruzione professionale, che nei primi anni Duemila in Lombardia e nelle regioni del Centro Nord immetteva continuamente operatori qualificati nel mondo in espansione della meccanica e dell’impiantistica elettrica e termotecnica, si pensò al superamento del Progetto 92, per dar compiutezza al percorso quinquennale. Il risultato non è stato sempre quello atteso: la qualifica professionale è divenuta talvolta non un elemento qualificante, ma una strategia alternativa ad un insuccesso scaturito da un orientamento errato, obiettivo spesso fallito o conseguito con anni di ritardo. L’obbligo fino ai sedici anni non dà un titolo in uscita, e forte è il rischio di uscire dal percorso scolastico senza un titolo secondario; meglio allora orientare gli studenti con spiccate attitudini pratiche, subito, ad un corso professionale.
Troppo spesso, inoltre, gli interventi e le riforme non erano accompagnati dal necessario stanziamento di risorse; fra i ruoli che più di tutti risentono di questa carenza di investimenti vi sono i coordinatori di classe, la cui preziosa attività è espressione vera di quel middle management che mai nella Scuola è stato esplicitamente valorizzato. E dire che le mansioni attribuite ai coordinatori sono di grande impegno e rilevanza: essi declinano gli indirizzi del dirigente in azioni operative presiedendo su sua delega il Consiglio di Classe, si interfacciano con le famiglie nella risoluzione dei problemi più disparati, curano le attività di riorientamento e di prevenzione della dispersione, coordinano la sintesi dei documenti più importanti, quali il documento dell’Esame di Stato e il Piano Formativo Individualizzato degli Istituti Professionali, il tutto con grande autonomia e consapevolezza, non disgiunte da approfondita preparazione e capacità relazionale.
Il lettore attento si chiederà senz’altro quale particolare percorso formativo debba avere questo docente, vero e proprio tutor del percorso formativo, e quale sia il suo compenso. In realtà la formazione si materializza con la sensibilità personale, con l’esperienza, con la volontà di condividere le proprie competenze e di assorbirle da chi ha svolto quel compito prima di lui. Il compenso poi si riduce a poche ore o decine di ore del Fondo di Istituto; vale a dire poche centinaia di euro lordi l’anno.
È chiaro che un tale impianto presenta molti punti di criticità: qualora in una scuola di media complessità vi fosse un significativo rinnovamento del corpo docente, potrebbe divenire elevato il rischio di collasso del sistema: è questo, ad un tempo, il vantaggio e lo svantaggio di un sistema a legame debole, come descritto in letteratura da Karl Weick. Il legame debole (loose coupling) trae vantaggio dalla possibilità di interrompere quegli intrecci che divengono critici sviluppandone altri come compensazione. Anziché una struttura rigidamente gerarchica si privilegia dunque la relazione fra pari. Il problema sorge laddove la struttura è sollecitata oltre il punto di rottura: le relazioni non possono allora supplire, e la “rete” si smaglia.
L’unica soluzione è allora quella di istituzionalizzare i ruoli intermedi, determinando così una maggiore “rigidità” strutturale del nodo occupato dal tutor, dal coordinatore, dal referente, che diviene un riferimento oggettivo. A questo riconoscimento deve corrispondere una reale investitura di compiti e responsabilità, una formazione specifica, un compenso adeguato.
Mi sento dunque di sposare in pieno l’affermazione secondo cui, dal momento che la scuola del merito deve sviluppare i talenti individuali dei ragazzi promuovendo le attitudini di ciascuno, l’insegnamento debba essere il più possibile personalizzato. Resta inteso che questo non si può fare senza oneri per lo Stato, per cui risulta indispensabile investire risorse in tale strategia. Si comprende allora appieno la necessità di implementare la figura del docente tutor che – in virtù di una formazione specifica e riconosciuta prima di tutto dal dirigente e dagli stessi colleghi – assumerà a pieno titolo i compiti che già oggi, in pratica, gli vengono attribuiti, oltre agli ulteriori incarichi di tutoraggio e personalizzazione. Importante caposaldo della proposta è che alla professionalità e all’impegno dovrà corrispondere una retribuzione adeguata, in omaggio all’art. 36 della Costituzione e ai più elementari principi di equità salariale.
Alessandro Papini
Dirigente I.S.I.S. Giorgio Vasari
Figline e Incisa Valdarno (Firenze)