L’occasione delle riflessioni che seguono è data da alcuni recenti avvenimenti che hanno posto in luce una evoluzione nell’assetto costituzionale dei tradizionali Poteri (legislativo, esecutivo, giurisdizionale). Evoluzione variamente giudicata dai media ma anche dagli esperti, più per aderenza acritica ad una parte politica che con una seria analisi giuridica delle conseguenze costituzionali.
Si tratta di alcuni decreti emessi dalla Sezione specializzata per le questioni migratorie del Tribunale di Catania di non convalida il trattenimento nel centro di un immigrato, nonché della sentenza emessa dal Tribunale di Firenze che ha anch’esso respinto la convalida del trattenimento, ma con altra motivazione.
Non è la sede per una disamina nel merito, mi limiterò ad accennare ai contenuti dei provvedimenti.
Nel primo caso (Catania) il Giudice ha rilevato un presunto contrasto tra le norme che disciplinano il trattenimento degli immigrati clandestini provenienti da un c.d. paese sicuro, con alcune direttive europee, piuttosto capziosamente e contraddittoriamente interpretate. Ha quindi disapplicato la norma di legge, in asserita applicazione della sentenza della Corte Costituzionale 11 luglio 1989, n. 389 che ha stabilito la primazia del diritto europeo qualora la direttiva contenga norme direttamente applicabili (non è questo il caso) ed ha negato la convalida del trattenimento.
Ne secondo caso (Firenze) il collegio ha negato la qualificazione di Paese sicuro della Tunisia, sostituendosi alla Amministrazione degli Esteri e dell’Interno, e affermando che: “La grave crisi socioeconomica, sanitaria, idrica e alimentare, nonché l’involuzione autoritaria e la crisi politica in atto” in Tunisia “sono tali da rendere obsoleta la valutazione di sicurezza compiuta a marzo dal governo italiano”. Giova ricordare che tale valutazione è compiuta dal Governo all’esito di una complessa procedura prevista dall’art. 2 bis del decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25, in attuazione di una direttiva europea. La procedura prevede la compilazione da parte del Ministero degli esteri di schede approfondite per ciascun Paese compilate sulla base dei rapporti e delle informazioni delle rappresentanze diplomatiche e delle notizie riservate di cui il Ministero è in possesso. La valutazione di Paese sicuro o no costituisce un atto politico, e non di amministrazione, caratterizzato da discrezionalità non solo tecnica.
Facendo uso della propria “scienza personale” (metodologia assolutamente inammissibile secondo la plurisecolare giurisprudenza della Cassazione, mai posta in dubbio) ha affermato, quindi, che è erronea la qualificazione di Paese Sicuro della Tunisia perché sarebbe nota, invece, la situazione di violazione dei diritti umani e dei principi democratici.
Di là dalle valutazioni puramente giuridiche da lasciare ai rimedi impugnatori e ad altra più ampia sede, le sentenze accennate impongono una riflessione.
La teoria della separazione dei poteri è un caposaldo nella costruzione dello Stato liberale nei paesi di cultura occidentale e segnatamente europei.
Ne ragionava già, alla fine del XVII secolo, il filosofo liberale John Locke. È noto però che la compiuta teoria della separazione è attribuita a Montesquieu, illustrata nel suo “Lo spirito delle leggi” (1748).
Il liberalismo ha sempre concepito una profonda avversione nei confronti della concentrazione delle potestà, facoltà, opportunità, in poche parole delle condizioni di monopolio o comunque di dominanza di persone o organismi, non solo in campo economico e sociale, ma come cifra antropologica della società aperta e quindi anche nei rapporti umani.
Secondo questa concezione, anche nella ideazione dello Stato occorre mantenere l’equilibrio nella allocazione dei Poteri-funzione.
Scrive Montesquieu: “”Chiunque abbia potere è portato ad abusarne; egli arriva sin dove non trova limiti.”
La visione fondante del liberalismo è la spettanza ad ogni Persona della libertà di agire e di autodeterminarsi attraverso l’esercizio delle libertà civili ed economiche. Mediante la loro illimitata interazione si realizza il corretto funzionamento della società che si autoregola contemperando ed equilibrando gli interessi confliggenti. Per raggiungere tale obbiettivo occorre una limitazione mirata delle libertà disposta dalla legge con regole che favoriscano il libero confronto di interessi (nel mercato parleremmo di concorrenza) creando ostacoli alla concentrazione di potere ed assicurando anzi a tutti gli attori parità e simmetria di conoscenza, opportunità e potere di autodeterminazione.
La concentrazione di più funzioni in un unico organo creerebbe una dominanza che necessariamente si riverberebbe sulla regolazione delle libertà. La tradizionale tripartizione prende le mosse proprio dalla constatazione che tre sono le funzioni fondamentali che incidono direttamente sulle libertà: il decidere, l’eseguire o attuare, il giudicare. Da qui la convenzionale separazione nei tre Poteri, che non è certo Vangelo (in altri contesti i Poteri possono essere diversi anche nel numero) ma paradigmatica della base filosofica del sistema.
A questo scopo, soccorrono la generalità e astrattezza della legge, indispensabili per affermare la legalità anche nei rapporti concreti e tollerare quindi le limitazioni alla libertà dei singoli. Emerge così che il punto centrale della elaborazione del M. è la tutela della legalità di contro alla costruzione dello Stato dispotico nel quale l’unico principio di governo è l’applicazione della forza. La separazione dei poteri ha come fine ultimo la tutela della legge sotto il cui impero (the rule of law) la società aperta può conciliare libertà e autorità. La tutela degli organi che esercitano i poteri è piuttosto funzione della prima.
Ne discende che la funzione cardine nella costruzione statuale è quella del Potere legislativo, intorno al quale ruotano le altre due funzioni (esecutiva e giurisdizionale) che in qualche misura non sono che serventi non della funzione legislativa soggettivamente intesa, ma del suo oggetto: la legge.
Il primato della legge opera su un piano giuridico, cioè delle norme costituzionali di organizzazione statuale, ma ciò non deve nascondere il diverso piano che costituisce il sostrato dell’intera costruzione organizzativa dello Stato. Se compito dello Stato è la ricerca dell’equilibrio tra gli interessi attuato attraverso l’introduzione di norme generali e astratte da un lato (funzione legislativa) e di provvedimenti concreti attuativi o esecutivi (funzione esecutiva) non si può obliterare il fatto che tale sostrato sia costituito da un indirizzo strategico di intervento. Viene in questione così una ulteriore funzione dell’apparato statuale, separata e diversa da quelle sino ad ora contemplate, e ad esse non assimilabile, quella cioè di direzione suprema della cosa pubblica in attuazione e nel rispetto degli interessi fondamentali e permanenti del regime politico direttamente discendente dalla Costituzione oltre che di coordinamento e controllo delle manifestazioni concrete di tale direzione. Essa è la funzione politica, esplicata mediante atti politici. Tale categoria comprende atti di valore formale e forza giuridica differenti individuati variamente dalla dottrina e dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato, tra cui qui interessano quelli aventi forza e valore di legge o, in parte qua, quelli con valore e forza di atto provvedimento amministrativo.
La caratteristica fondamentale dell’atto politico è quella di non riconoscere altri limiti se non quelli indicati dalla Costituzione e di essere quindi liberi nei fini. Appare chiara questa qualificazione per gli atti legislativi. Più complessa la questione quanto ai provvedimenti amministrativi. Se essi in linea generale posseggono il valore formale e la forza di atti amministrativi, soggetti pertanto anche al giudizio del giudice amministrativo e all’eventuale annullamento, al contempo possono contenere disposizioni direttamente attuative dell’indirizzo politico, tanto che, per quella parte, possono considerarsi atti politici non giustiziabili se non per violazione della norma interposta (la legge che li autorizza) o delle procedure formali.
E’ proprio il caso del decreto interministeriale che qualifica i Paesi sicuri, il quale ha forza e valore di atto amministrativo, e come tale è soggetto al giudice amministrativo per vizi propri, ma contenuto politico.
Accanto alle tre funzioni tradizionali che si declinano in Potere, abbiano così l’emergere di una quarta funzione, quella Politica, o di attuazione costituzionale, che pertiene a Parlamento e Governo e che convive con l’altra funzione ad essi attribuita e ne utilizza gli atti tipici, ma con forza e obbiettivi diversi.
Fondamentale in questa costruzione è il contrasto anche preventivo allo straripamento di potere tra Poteri-apparato, che determinerebbe la concentrazione di fatto in un unico organo di due o più funzioni contraddicendo il sistema.
Scrive a questo proposito Montesquieu: “Perché non si possa abusare del potere occorre che […] il potere arresti il potere”. Cioè a dire che ciascun organo titolare del Potere-funzione riceva esso stesso tutela.
Le tutele vi sono e sono passive o attive.
Nel primo senso si attuano mediante strumenti giuridici formali che impediscano e contrastino in radice le interferenze indesiderate; nel secondo senso, mediante procedure di garanzia affidate, con enorme cautela, ad altri organi dello stato non titolari di potere-funzione (ad evitare che così facendo ci si limiti a spostare di livello la concentrazione di potere finale).
È in sostanza il sistema del c.d. check and balance che contempla un limitato potere di interdizione reciproca.
La prima misura di garanzia passiva discende dallo scudo giuridico formale costituito dagli atti tipici di esercizio del Potere-funzione.
Ciascuna delle tre funzioni agisce attraverso un atto tipico (legge, provvedimento amministrativo, pronuncia giurisdizionale). Ciascuno di essi è dotato di una forza ed un valore formale peculiari che lo pongono al riparo dalla incidenza diretta da parte degli altri poteri sulle loro determinazioni. Essi si traducono, molto semplificando, nel possesso di un elevato grado di resistenza rispetto agli atti tipici degli altri Poteri, nonché della capacità giuridica di costituire, modificare da se medesimi e da soli, rapporti giuridici interni alla organizzazione statuale o attinenti alla relazione autorità libertà nei confronti dei cittadini o ai rapporti tra questi.
Più esattamente, la forza di legge si traduce nella capacità di innovare nell’ordine legislativo (cioè incidere sulle norme giuridiche di tale rango) e di resistere alle modifiche se non provenienti da un atto dotato della medesima forza, quindi non da un provvedimento giurisdizionale né amministrativo. Il valore formale si estrinseca nella intangibilità dell’atto e del suo contenuto, salva le procedure di dichiarazione di incostituzionalità o di abrogazione referendaria o di emanazione di un atto avente pari forza.
La forza di atto amministrativo si traduce nella autoritarietà di esso nei confronti dei soli destinatari, che si trovano in posizione di soggezione o obbligo secondo i contenuti dell’atto. Il suo valore formale comporta la annullabilità, modificabilità o revocabilità dell’atto solo ad opera di alcune autorità amministrative (normalmente il superiore gerarchico) e di una unica autorità giurisdizionale, il giudice amministrativo.
Infine, la forza di pronuncia giurisdizionale consiste nella attitudine ad acquisire efficacia di cosa giudicata, cioè di accertare e dichiarare definitivamente e incontestabilmente per chiunque i fatti e la regola che li disciplina, con esclusivo riferimento alle parti del giudizio e ai fatti dedotti nel processo. Il suo valore si estrinseca nella insuscettibilità di subire modificazioni se non attraverso procedure giurisdizionali ad opera di una altra pronuncia giurisdizionale nel sistema degli appelli, o revocazione, o annullamento del processo etc.
Lo scudo giuridico formale garantito dalla tipicità e resistenza degli atti tipici è funzione del contenuto concreto, del core business dell’organo. Quindi qualunque interferenza, se ammessa dalla legge, non può mai spingersi oltre il limite sino ad incidere sulla funzione stessa. È ciò che si intende quando si parla di riserva di legge, di amministrazione, di provvedimento giurisdizionale. Categoria, questa riserva, per la verità non da tutti accettata, la cui violazione deriva dalle figure dell’abuso del diritto e dell’eccesso di potere nella funzione.
In punto di teoria sia l’eccesso di potere sia l’abuso del diritto sono categorie ben conosciute nel diritto italiano, ma confinate rispettivamente nel diritto amministrativo e nel diritto civile o processuale.
La stessa Corte costituzionale, pur non accogliendo espressamente né il concetto della riserva di funzione (di amministrazione in particolar modo) né di eccesso di potere nella funzione (di legislazione in particolar modo) tuttavia utilizza il termine stesso ad esempio nelle sentenze in cui giudica della costituzionalità delle così dette leggi provvedimento, sospettate appunto di appropriarsi illegittimamente della funzione esecutiva o attuativa introducendo non norme generali e astratte ma così dette di privilegio. (ex multis da ultimo Corte Cost. 26 aprile 2022, n. 186).
La tutela passiva dei Poteri-funzione, consiste nel valutare l’esistenza dell’effetto reale dello straripamento, non può quindi non tenere conto delle conseguenze fattuali derivanti dall’atto pur formalmente corretto posto in essere dal Potere-funzione sospettato di straripamento, proprio attraverso l’uso delle categorie dell’auso del diritto e dell’eccesso di potere nella funzione.
Negli ultimi anni si sono affermate due tendenze inarrestabili allo straripamento del potere giudiziario nei confronti dei poteri legislativo ed esecutivo, la cui esemplificazione è stata citata nell’introduzione.
La premessa necessaria è che ci troviamo dinanzi non ad illegittimità dell’uso delle proprie prerogative, ma alla categoria dell’abuso del diritto. In altri termini, sono utilizzati strumenti giuridici previsti dall’ordinamento, e principalmente la disapplicazione della legge e del provvedimento amministrativo, cioè degli atti tipici del potere legislativo e di quello esecutivo.
Sotto il primo profilo è invocata soprattutto l’incidenza del diritto europeo e della sua primazia, anche attraverso le direttive e non solo mediante i regolamenti. Senza volere porre in dubbio (in questa sede e almeno per il momento) la correttezza di questo modo di rapportare tra loro il diritto europeo e i diritti nazionali, occorre però sottolineare che tale istituto si applica solo alla presenza di precise condizioni e presupposti. Orbene la sussistenza di essi è lasciata alla mera cognizione e decisione dello stesso potere giudiziario che quindi, in sostanza, si dà esso stesso la regola interpretando la direttiva, e poi la applica. In ciò proseguendo in una tendenza già manifestatasi con le abbastanza recenti riforme circa il potere vincolante delle sentenze delle SS. UU. della Cassazione e della Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (art. 374, terzo comma c.p.c. e art. 99, co. 3 del codice del processo amministrativo), con le quali, di fatto, e senza che ciò abbia violato, almeno ad un primo esame, alcuna norma costituzionale, si è concretizzata la tensione a trasformare la funzione di proclamare e definire la regola del caso concreto, propria del provvedimento tipico giurisdizionale, in quella di individuare norme di fatto generali e astratte, perché necessariamente applicate a tutti i casi giustiziati o giustiziabili analoghi che si presenteranno in futuro, seguendo una linea di ragionamento che esalta la funzione giurisdizionale a scapito di quella legislativa, che già la Corte Cost. ha seguito nella citata sentenza n. 389 del 1989 quando ha riconosciuto alle sentenze della Corte di Giustizia natura di fonte del diritto.
Nella disapplicazione della legge si riscontrano così da un lato l’abuso del diritto, cioè la violazione di un limite esterno all’esercizio del diritto o del potere perpetrato attraverso un uso anormale di esso che conduce il comportamento dell’agente, nel caso concreto e nel contesto dato, fuori della sfera del potere esercitato, ponendosi in contrasto con gli scopi per cui esso è attribuito. Dall’altro l’eccesso di potere nella funzione, sotto la forma tipica conosciuta dal diritto amministrativo di sviamento di potere, cioè l’uso di un legittimo potere attribuito per il raggiungimento di un fine pubblico ed invece utilizzato per perseguire nei fatti un diverso risultato.
La valutazione di questa tendenza deve prescindere dalla tentazione di giustificarla o meno in funzione della opportunità o giustizia delle norme disapplicate, poiché tale giudizio è proprio della funzione politica del Parlamento cui abbiamo sopra accennato, che in tal modo gli è sottratta cioè è sottratta al popolo e al meccanismo democratico previsto dalla Costituzione.
Sotto il secondo profilo che attiene al rapporto tra l’atto tipico del giudicato e provvedimento amministrativo, viene in questione l’analogo istituto della disapplicazione del provvedimento da parte del giudice civile, risalente come è noto alla legge 20 marzo 1865, n. 2248, abolitiva del contenzioso amministrativo, all. E, artt. 4 e 5. Occorre però ricordare che tale norma si affaccia al panorama giuridico in un contesto costituzionale affatto diverso dall’attuale che muoveva i primi passi, sotto l’impulso delle riflessioni costituzionali di Silvio Spaventa, verso una tutela più incisiva del cittadino nei confronti di un esecutivo sicuramente non assistito dalle caratteristiche di costituzionalità democratica previste dalla nostra costituzione. Tanto da porre seriamente in dubbio che l’istituto abbia ancora la sua valenza giuridica e costituzionale.
Ed infatti, è prevista dalla Costituzione (art. 113, comma terzo) una interferenza tra il potere esecutivo e quello giurisdizionale (unica nel panorama costituzionale dei rapporti tra Poteri), vale a dire tra il primo e il giudice speciale amministrativo, l’unico che può incidere sulla forza del provvedimento amministrativo annullandolo se illegittimo. Il Giudice amministrativo funge, quindi, da cerniera di garanzia tra il potere esecutivo e quello giurisdizionale (non giudiziario) cui esso appartiene.
La disapplicazione del provvedimento amministrativo dovrebbe avere effetti solo nel caso concreto in relazione al procedimento in corso, ma, grazie anche al meccanismo sopra ricordato riguardante il valore di fatto erga omnes delle sentenze delle Supreme Corti, essa finisce con l’introdurre nell’ordinamento una nuova norma di attuazione o esecuzione della legge, straripando nella funzione tipica dell’amministrare e per altro affidando tale compito ad un organo non attrezzato a svolgere l’istruttoria su quella comparazione tra interessi pubblici o pubblici e privati propria dell’amministrare. Infatti, i provvedimenti amministrativi non possono essere giudicati con il solo parametro della conformità ad una norma astratta, ma richiedono una valutazione nel merito, che è propria della P. A. ed è negata perfino all’unico giudice cui è affidato viceversa il potere di annullare l’atto per le sole illegittimità.
Tirando le fila di questa breve disamina possiamo così schematizzare la situazione.
La separazione dei poteri è fondamentale usbergo della primazia della legge e delle libertà dei cittadini.
L’interferenza (straripamento) di un Potete-funzione sull’altro è contrastata dal regime formale e dalla forza di ciascuno degli atti tipici in cui la funzione si estrinseca.
Lo straripamento è altresì contrastato dal riconoscimento di una riserva a favore dei singoli Poteri che non può essere oggetto di interferenza pena la negazione della funzione stessa.
Infine, sussista una grave preoccupazione costituzionale dinanzi all’abuso del diritto ed all’eccesso di potere giurisdizionale che invade la sfera della funzione politica e scardina non solo il sistema della separazione dei poteri, ma con esso l’impianto stesso della Costituzione, determinando il rischio di involuzioni antidemocratiche.
Concludendo, occorre guardarsi dalla tentazione di ricondurre queste problematiche alla sola visione giuridica, o peggio legista, accettando invece il fatto che ci si trovi alla presenza di veri e propri conflitti di potere tra Poteri-apparati, per disinnescare i quali occorrono sicuramente alcune riforme normative, ma anche l’utilizzazione delle misure di garanzia attiva dei Poteri-funzione cui abbiamo accennato all’inizio, tra cui la procedura del conflitto di attribuzioni dinanzi alla Corte Costituzionale o di esercizio di quella funzione tipica della costituzione materiale consistente nella c.d. moral suasion posta in essere dal Capo dello Stato.
Claudio Zucchelli
già presidente di sezione Consiglio di Stato