Riccardo de Caria
Professore associato di diritto dell’economia, Università di Torino
Quando a lezione ci si occupa della libertà di espressione in prospettiva comparata, normalmente si spiega agli studenti come gli Stati Uniti siano un modello che garantisce tradizionalmente una protezione fortissima a questo diritto, che i padri fondatori scelsero non a caso di incastonare nel Primo Emendamento della Costituzione federale.
Nello spirito milliano del “mercato delle idee”, per cui le buone idee saranno in grado di scacciare quelle cattive, e non c’è quindi bisogno che la legge promuova le prime e sfavorisca la circolazione delle seconde, la Corte Suprema americana è arrivata a stabilire che non possono essere vietate neppure forme di espressione riconducibili ai cosiddetti discorsi d’odio (hate speech).
Il Primo Emendamento non è cambiato, e neppure l’interpretazione così massimalista che ne dà la Corte Suprema federale, dove si è recentemente rafforzata una maggioranza di orientamento conservatore, già presente da alcuni decenni, che ha estremamente a cuore il free speech.
Eppure, a leggere rapporti come l’ultima edizione del College Free Speech Rankings, o la sconcertante denuncia dell’esistenza di una “dittatura woke” fatta pochi giorni fa al Corriere della Sera da parte di una collega italiana di stanza alla Columbia University che pur si autodefinisce “progressista radicale”, sembra che si descriva un universo parallelo.
La gran parte delle università americane, e soprattutto quelle più prestigiose e influenti della Ivy League (a cominciare da Harvard che, nei Rankings citati, ottiene il punteggio più basso possibile, 0,0), sembrano essere piombate in una spirale opprimente di politicamente corretto, che censura ogni idea non conforme e trova persino accettabile che si impedisca di parlare a qualcuno che (si presume) vorrà esprimere opinioni considerate scomode.
Questo silenziare fisicamente i portatori di messaggi sgraditi prende il nome di “heckler’s veto” e tendenzialmente viene ritenuto dal diritto, prima di tutto negli Usa dove si è sviluppata la riflessione in argomento, una forma di violenza (e non certo, a sua volta, una forma di espressione), come tale non protetta. Eppure sembra essere divenuta la norma.
Del resto i resoconti come quelli citati collimano alla perfezione con quelli di stimati colleghi che riferiscono di un profondo irrigidimento verificatosi nel giro degli ultimi anni, che, dopo molti libri pubblicati dalle case editrici più importanti, hanno iniziato a vedersi respingere in serie le nuove proposte, dovendo finire per ripiegare su editori assai meno blasonati perché gli unici ormai disposti ad accogliere proposte non in linea con il nuovo mainstream.
Ciò conduce inevitabilmente a quel fenomeno subdolo ben evidenziato dal rapporto College Free Speech Rankings, ovvero l’autocensura: il timore di ritorsioni e ripercussioni personali comporta sicuramente una sommersione di idee e opinioni, che rimangono inespresse. E per definizione questa montagna di non detto “non si vede”, e come tale è pressoché impossibile da percepire.
Il movimento woke sembra essersi impadronito della “finestra di Overton” del discorso pubblico, ovvero ha preso il controllo della definizione di ciò che è o meno accettabile, riuscendo a usare paradossalmente gli strumenti del diritto per marginalizzare opinioni non allineate, in un ribaltamento completo della grande tradizione americana della libertà di espressione, che aveva visto la sinistra farsi campione e alfiere delle manifestazioni di pensiero scomode e sgradite al potere. Ora, però, sembra essere incappata in un nuovo clamoroso “tradimento dei chierici”, come ha scritto coraggiosamente Niall Ferguson in un recente articolo tradotto dal Foglio.
Purtroppo la tendenza sembra fare scuola anche in Italia, come dimostra il recentissimo tentativo di non far parlare alla Sapienza, al grido di “razzista, fascista”, il giornalista ebreo di sinistra David Parenzo, reo di non sposare la causa palestinese, o il caso del Professor Bassani, sospeso per un mese dalle funzioni e dallo stipendio per aver condiviso un meme di satira politica sul suo profilo Facebook. La sanzione a Bassani dell’Università di Milano è stata confermata dal TAR, e anche se il Consiglio di Stato potrebbe ancora fare giustizia, Bassani si è visto costretto a cercare maggiori spazi di libertà cambiando ateneo, togliendo lui il “disturbo” che i colleghi gli avevano fatto comprendere in tutti i modi che stava arrecando loro, come ha raccontato di recente su Libero.
Non appare facile immaginare strategie efficaci contro la marea montante degli “argomenti” che tacciano di razzismo, omofobia, maschilismo, negazionismo scientifico qualunque posizione non-woke. Eppure, nonostante tutto, si può confidare proprio nel mercato delle idee a cui presta così poco credito il pensiero woke. Una ragione di ottimismo potrebbe cioè derivare dal fatto che la “pattumiera della storia” ha già inghiottito regimi illiberali e intolleranti, che prima o poi crollano sotto il peso delle proprie contraddizioni.
La sfida è quella di salvare la civiltà dal crollo che investirà inevitabilmente anche la “dittatura” del politicamente corretto, riuscendo a farlo senza confondersi con chi razzista, omofobo, maschilista o cospirazionista antiscientifico lo è realmente. “Vaste programme”, ma se non ha smesso di trasmettere Radio Londra perfino negli anni più bui, la resistenza che attende oggi i liberal-conservatori non può certo spaventarli. Ciò che occorre evitare è di sentirsi giustificati nell’invocare un’intolleranza per ritorsione, come nel caso di chi invoca sanzioni professionali per docenti che, come accaduto notoriamente pochi giorni fa, simpatizzano con terroristi assassini mai pentiti. Una società tollerante, come la chiamò Bollinger, è una società che non mette al bando, ma che si rafforza nel digerire ed espellere i “nazisti dell’Illinois” sempre soltanto auctoritate rationis, con la forza della ragione, e mai ratione auctoritatis, con gli strumenti della coercizione, o le ragioni della forza.