Prof. Luciano De Giorgio
Docente di Filosofia e Scienze Umane
Si è portati a pensare che le condanne, in certi casi ingiuste da parate della politica nei confronti di alcuni politici e di alcuni personaggi scomodi, siano una caratteristica della contemporaneità.
La storia, invece, si ripete nel tempo e a dimostrazione di ciò non si può non ricordare la morte di Socrate, condannato da una democrazia che non voleva trovare ostacoli sul suo percorso.
Socrate, uomo giusto e onesto, fu condannato a morte nel 399 a.C. con l’accusa di empietà (fu accusato, cioè, di non onorare gli dèi della sua città, di averne introdotto nuove divinità e di corrompere i giovani).
Nel 399 a.C., infatti, un poeta di nome Meleto consegnò alle autorità giudiziarie la seguente accusa:
Meleto, figlio di Meleto del demo Pito, presenta e giura le seguenti accuse contro Socrate, figlio di Sofronisco, del demo Alopece: Socrate è colpevole di non riconoscere gli dèi che la città non riconosce, poiché introduce altre e nuove divinità; ed è anche colpevole di corrompete i giovani. La pena richiesta è la morte.
Ma questa accusa era proprio vera? In realtà Socrate non era empio, ma era un personaggio scomodo e temuto da una democrazia appena nata. Egli, infatti, fu condannato durante il periodo della restaurata democrazia, una democrazia piuttosto fragile e con pochi valori. Le istanze critiche del filosofo, pertanto, furono vissute dal potere come una minaccia e come destabilizzanti per i nuovi equilibri politici.
Socrate ebbe la possibilità di fuggire grazie all’aiuto del suo discepolo Critone, ma si rifiutò e con la solita onesta che lo contraddistinse, disse di non volersi sottrarre alle leggi ateniesi che lo avevano condannato sia pure ingiustamente.
Di fronte ai suoi accusatori (Meleto, Licone e Anito) scelse di difendersi da solo, confutando punto per punto tutte le accuse mossegli e le sue ultime parole furono:
Ma ormai è ora di andare, per me a morire, per voi a vivere: chi di noi vada incontro alla cosa migliore, è oscuro a tutti tranne che a dio.
Così come per molti studiosi l’accusa contro Socrate altro non fu che un pretesto giuridico dietro il quale si nascondeva l’ostilità dei democratici, anche nel caso del processo nei confronti di Matteo Salvini si può riscontrare la medesima strategia: non avendo altri elementi per poterlo attaccare, si sono inventati il sequestro di persona.
La requisitoria dei pm di Palermo che hanno chiesto 6 anni di reclusione per Matteo Salvini sembra avere un vero e proprio sapore politico. La protezione dei confini è prevista dalla Costituzione ed è assurdo, pertanto, che un Ministro della Repubblica venga mandato a processo.