La malattia professionale è una patologia la cui causa agisce lentamente e progressivamente sull’organismo. Si tratta di una così detta causa diluita, perché non violenta e non concentrata nel tempo.
Essa deve essere diretta ed efficiente, cioè in grado di produrre l’infermità in modo esclusivo o prevalente: il decreto legislativo 30 giugno 1965, n. 1124 (TU delle disposizioni sulle assicurazioni contro gli infortuni sul lavoro), infatti, si occupa di malattie contratte nell’esercizio e a causa delle lavorazioni rischiose. È ammesso, tuttavia, il concorso di cause extraprofessionali, purché queste non interrompano il nesso causale in quanto capaci di produrre da sole l’infermità.
Viceversa, l’infortunio sul lavoro è l'evento traumatico, avvenuto per una causa violenta sul posto di lavoro o anche semplicemente in occasione di lavoro. In questo caso si determina comunque una malattia del corpo ma nell’infortunio sul lavoro la causa è violenta, cioè fa seguito ad una azione intensa e concentrata nel tempo che causa le lesioni (o la morte) del lavoratore, nella malattia la causa è lenta e costante.
Per le malattie professionali, quindi, non basta l’occasione di lavoro come per gli infortuni, cioè un rapporto anche mediato o indiretto con il rischio lavorativo, ma deve esistere un rapporto causale, o concausale, diretto tra il rischio professionale e la malattia.
Il rischio può essere provocato dalla lavorazione che l’assicurato svolge, oppure dall’ambiente in cui la lavorazione stessa si svolge.
Ai nostri fini rilevante è la distinzione tra Malattie professionali tabellate e non tabellate.
Le malattie professionali sono tabellate se:
● indicate nelle due tabelle (una per l’industria e una per l’agricoltura) previste dal d.lvo n. 1124 del 1965;
● provocate da lavorazioni indicate nelle stesse tabelle
● denunciate entro un determinato periodo dalla cessazione dell’attività rischiosa.
Nell’ambito del cosiddetto “sistema tabellare”, il lavoratore è sollevato dall’onere di dimostrare l’origine professionale della malattia. Infatti, una volta che egli abbia provato l’adibizione a lavorazione tabellata (o comunque l’esposizione a un rischio ambientale provocato da quella lavorazione) e l’esistenza della malattia anch’essa tabellata e abbia effettuato la denuncia nel termine massimo di indennizzabilità, si presume per legge che quella malattia sia di origine professionale.
È questa la cosiddetta “presunzione legale d’origine”, superabile soltanto con la rigorosissima prova – a carico dell’Inail – che la malattia è stata determinata da cause extraprofessionali e non dal lavoro.
La Corte Costituzionale, con la sentenza 179/1988, ha introdotto nella legislazione italiana il cosiddetto “sistema misto” in base al quale il sistema tabellare resta in vigore, con il principio della “presunzione legale d’origine”, ma è affiancato dalla possibilità per l’assicurato di dimostrare che la malattia non tabellata di cui è portatore, pur non ricorrendo le tre condizioni previste nelle tabelle, è comunque di origine professionale.
Una prima conclusione da questa breve panoramica dottrinale e giurisprudenziale è che la sindrome da Sars-COV-2 19 non dovrebbe essere considerata una malattia assicurata, perché non derivante dallo svolgimento di attività tabellate o esposte a rischi tabellati, ma nemmeno un infortunio, perché non derivante da una causa violenta.
Occorre considerare però che la giurisprudenza della Cassazione (ex multis Sez. Lav. 12 maggio 2005, n. 9968 da ultimo et alia) ha introdotto il concetto di malattia-infortunio. Ha considerato, infatti, come vi sia una equiparazione tra causa virulenta e causa violenta, atteso che la penetrazione del virus avviene, come in un infortunio, in maniera puntuale e traumatica, in tempo ristretto e non invece, nel corso tempo come una malattia.
Ne consegue che anche la sindrome in questione rientrerebbe nei rischi assicurati sotto forma di malattia-infortunio.
In effetti, l’art. 42, co. 2 del d.l. n. 18 del 2020 ha seguito questa impostazione giurisprudenziale ed ha equiparato la sindrome a una malattia-infortunio sottoponendola al regime della indennizzabilità, e utilizzano espressamente la locuzione: “in occasione di lavoro” che contraddistingue appunto l’infortunio. Ma vi è da considerare anche che la giurisprudenza di cui la norma è cristallizzazione si è formata sulla base di malattie virali assunte dal lavoratore non nella semplice occasione del rapporto di lavoro, ma a causa delle mansioni espletate (i due casi più eclatanti erano la acquisizione di una epatite B per contagio da paziente a carico di un infermiere, e dell’HIV a causa di una accidentale puntura sulla mano a carico di un odontoiatra). In sostanza, anche la malattia-infortunio deve comunque essere legata da un nesso inscindibile con il rapporto di lavoro, altrimenti saremmo alla presenza di una normale affezione che può colpire qualsiasi cittadino.
Trattandosi di una malattia infortunio, si applicano alle affezioni virali i criteri di prova in vigore per l’accertamento delle la esposizione a rischio e del nesso di causalità vigenti per le malattie non tabellate. Dunque, seguendo la giurisprudenza citata, senza l’applicazione della presunzione che opera solo per le tabellate, ma con ampia possibilità di prova a dimostrazione del rapporto tra l’attività lavorativa e l’infezione, con ricorso a presunzioni semplici basate sulle conoscenze scientifiche, su dati statistici, sul tipo di infezione contratta dall’interessato, sulle caratteristiche dell’ambiente lavorativo, sulle mansioni cui lo stesso era addetto, ecc.
La libertà di prova non esclude, però, che tale prova debba essere fornita, pena la elisione del nesso di causalità tra l’espletamento del lavoro e l’aggressione del virus. In sostanza, l’equiparazione della sindrome in questione alla malattia-infortunio operata dal legislatore, in uno con la mancata tabellazione della malattia stessa, rende consapevoli che è pur sempre necessaria la prova di un criterio di collegamento biunivoco e necessario tra la sindrome e l’adempimento del rapporto di lavoro. Infatti, per quanto in questo caso la causa virulenta sia equiparata a quella violenta, tuttavia il rischio di infezione da Sars-COV-2 è, in sé e per sé un rischio “generico”, essendovi esposta la generalità dei cittadini. Perché esso si consideri aggravato fino a divenire specifico per l’attività lavorativa, occorre che sia in relazione a determinate tipologie di attività lavorativa o a specifiche condizioni della stessa o mansioni dell’infortunato.
Infatti, mentre per la indennizzabilità dell’infortunio basta che questo sia avvenuto in occasione del rapporto di lavoro, per la malattia professionale occorre che essa sia insorta a causa del lavoro o dell’ambiente di lavoro, e nel nostro caso ci muoviamo all’ interno della categoria della malattia, sia pure infortunio.
Riassumendo, l’art. 42, co. 2 del d.l. n. 18 del 2020 ha equiparato la sindrome (Sars- COV-2) all’infortunio sul lavoro, prevedendo l’intervento dell’INAIL nei casi accertati di infezione da coronavirus “in occasione di lavoro” (e non a causa del lavoro), ma così facendo ha riconosciuto l’esistenza di una malattia non tabellata che può avere rilevanza infortunistica
anche se non causata da una causa costante e continua (come la malattia) ma da una causa violenta e puntuale (infezione) ma allo stesso tempo non qualificando la sindrome come malattia non la ha assoggettata alla disciplina della presunzione legale favorevole al lavoratore.
Occorrerà, quindi, che il lavoratore dimostri come l’infezione sia dovuta alla esposizione che necessariamente egli ha subito agli agenti patogeni per l’espletamento delle proprie mansioni. Il che avverrà, senza dubbio, nei confronti degli operatori sanitari, probabilmente dei lavoratori costretti al contatto diretto con il pubblico, purché tale contatto sia da qualificarsi potenzialmente infettivo, ancora probabilmente là dove si provi che il contagio è avvenuto in itinere per l’obbligatorietà dell’uso di mezzi pubblici.
Orbene, poiché l’assicurazione INAIL copre tutti i lavoratori privati e pubblici, e quindi il novero di coloro che sono stati infettati e, purtroppo, deceduti è in massima parte costituito da lavoratori assicurati, ne consegue che una interpretazione troppo ampia delle condizioni di indennizzabilità trasformerebbe l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro in una assicurazione di malattia pubblica generalizzata, con coincidenza incalcolabile allo stato sulle casse dell’INAIL prima e della fiscalità generale dopo.
Si rende quindi necessario che la norma dell’art. 42 citato sia modificata ristringendo il novero dei soggetti indennizzati alle sole categorie necessariamente e sicuramente a rischio (come gli operatori sanitari) e si escluda nei casi in cui la generalità della pandemia abbia potuto comunque fungere da concausa dell’insorgenza.
Ad es., un possibile emendamento è il seguente:
Nel comma 2, dopo le parole “Nei casi accertati di infezione da coronavirus (Sars- COV-2) in occasione di lavoro,” sono aggiunte le parole: “a danno di lavoratori le cui mansioni li abbiano esposti con sicurezza al rischio di contagio,”.
La indennizzabilità della sindrome propone anche l’analogo problema circa la eventuale responsabilità civile del datore di lavoro.
E’ noto che in un regime previdenziale, di diretta attuazione dell’art. 38, comma secondo della Costituzione, si è assestata una interpretazione più ampia delle garanzie dell’infortunato, soprattutto in punto di prova. Quando però si affronta l’argomento di una eventuale responsabilità civile del datore di lavoro, il rigido regime derivante dalla applicazione dell’art. 2043 cc non può essere tralasciato.
Come è noto, a seguito di forti proteste del mondo imprenditoriale, l’INAIl ha chiarito con una propria circolare che: “Pertanto, il riconoscimento dell’infortunio da parte dell’istituto non assume alcun rilievo per sostenere l’accusa in sede penale, considerata la vigenza in tale ambito del principio di presunzione di innocenza nonché dell’onere della prova a carico del pubblico ministero. E neanche in sede civile il riconoscimento della tutela infortunistica rileva ai fini del riconoscimento della responsabilità civile del datore di lavoro, tenuto conto che è sempre necessario l’accertamento della colpa di quest’ultimo per aver causato l’evento dannoso.
La posizione dell’INAIL appare ineccepibile. Occorre infatti ricordare che sia l’infortunio sia la malattia professionale determinano un danno che, per legge, è indennizzabile in quanto tale solo mediante la prestazione previdenziale. La peculiarità della assicurazione sociale, infatti, sta proprio nel traslare interamente sulla mutualità l’onere risarcitorio (o indennitario). Il che non esclude la responsabilità sussidiaria (penale o) civile del datore di lavoro, ma solo nella misura in cui a ciò abbia concorso il suo dolo (e si tratterà quindi di danno da reato o contravvenzione) o la sua colpa ex art. 2043.
Per altro la giurisprudenza giuslavorista è ormai assestata da anni sul riconoscimento dell’esistenza di una responsabilità sussidiaria del datore, solo nel caso in cui ne sussista la colpa, in particolare manifestatasi nella violazione delle norme e delle cautele sul lavoro (anche se non inducano in fattispecie di reato).
Orbene, se ricordiamo come per colpa ai fini della responsabilità risarcitoria si intenda il mancato impegno della diligenza richiesta per un certo tipo di attività: negligenza, imprudenza o imperizia, quindi inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline, dobbiamo concludere che la fattispecie della sindrome Sars-COV-2 non presenti caratteristiche differenti da altre situazioni di infortunio o malattia-infortunio. Salva la estrema confusione, incertezza e contraddittorietà delle misure imposte normativamente per contrastare la pandemia accompagnate dalla inammissibile contraddittorietà degli stessi pronunciamenti governativi.
Lo stesso INAIL, nella circolare sopra citata, afferma: “"Al riguardo, si deve ritenere che la molteplicità delle modalità del contagio e la mutevolezza delle prescrizioni da adottare sui luoghi di lavoro, oggetto di continuo aggiornamento da parte delle autorità in relazione all’andamento epidemiologico, rendano peraltro estremamente difficile la configurabilità della responsabilità civile e penale dei datori di lavoro.
Non sfugge che il valore giuridico di cotale circolare dinanzi a un Giudice sia prossimo allo zero.
Appare quindi necessario che si preveda una norma scudo penale e risarcitorio ad evitare fughe in avanti di una giurisprudenza più attenta a ragioni asseritamente umanitarie che giuridiche.
Improponibile appare una esenzione totale da responsabilità, mentre più consona ad un equilibrio giuridico degli interessi sembra l’introduzione della limitazione della responsabilità civile alla colpa grave, che sicuramente rende ininfluenti comportamenti dovuti ad incertezze legislative e applicative.
La norma potrebbe suonare così:
“I datori di lavoro pubblici e privati rispondono di eventuali danni derivati ai lavoratori dalla contrazione del virus Sars COV 2 in occasione del rapporto di lavoro, solo nel caso di dolo o colpa grave.”
Claudio Zucchelli
Già presidente sezione Consiglio di Stato
già Direttore Dagl della Presidenza del Consiglio dei Ministri