La riduzione del numero dei parlamentari è una delle tante riforme che dagli anni Ottanta del Secolo scorso vengono proposte allo scopo di razionalizzare il funzionamento del Parlamento.
In ordine di tempo le proposte sono state assai differenziate: la Commissione Bozzi, tra le proposte ipotizzava una composizione rimodulata a 514 deputati e 282 senatori; la Commissione De Mita-Iotti non propose alcuna modifica sul punto; la Commissione D’Alema proponeva la modifica del numero di deputati (tra 400 e 500) e altresì quella dei senatori disegnando, tuttavia, un Senato a composizione variabile che poteva giungere, con l’integrazione di rappresentanti degli enti territoriali, a 400 membri; il Disegno di legge c.d. Calderoli proponeva una Camera composta da 518 deputati e un Senato di 252; il progetto Violante modificava radicalmente la legittimazione del Senato con elezione di secondo grado da parte dei Consigli regionali; il Gruppo di lavoro sulle riforme istituzionali nominato dal Presidente Napolitano prevedeva un Senato rimodulato in proporzione al numero di abitanti di ciascuna Regione; la c.d. Commissione Letta riduceva significativamente il numero dei senatori in relazione, tuttavia, al superamento del bicameralismo paritario; infine la riforma Renzi- Boschi riduceva il numero dei senatori in relazione al mutamento delle funzioni del Senato.
Certamente il primo rilievo da farsi rispetto all’attuale riforma è che essa non si connette ad un mutamento strutturale delle funzioni delle Camere e non affronta il vero problema del sistema parlamentare italiano: il principio del bicameralismo perfetto.
E’ anche vero che tutte le riforme “organiche” (che prendevano cioè in considerazione i diversi e molteplici aspetti del sistema bicamerale) sono naufragate a causa, appunto della loro complessità: più si aumentano gli argomenti oggetto della riforma (e dell’eventuale referendum) più aumentano le possibilità di divergenza sulla riforma stessa. Da questo punto di vista è vero che l’attuale riforma è incompleta, ma perlomeno è un inizio di cambiamento.
Del resto sulla numerosità parlamentare i Costituenti faticarono a trovare un compromesso e quando lo raggiunsero non si può affermare che lo ritennero del tutto soddisfacente.
In un primo tempo, i Padri fondatori immaginarono di costituzionalizzare un criterio di proporzionalità del numero dei parlamentari in rapporto alla popolazione, prevedendo che la Camera fosse composta da un deputato ogni 80.000 cittadini, mentre il Senato da un senatore ogni 200.000 cittadini. Tale approccio aveva tuttavia il difetto di stabilizzare nella Carta fondamentale un elemento di per sé variabile come la situazione demografica del Paese, così sottoponendo la Costituzione stessa a modificazioni temporali necessarie ogniqualvolta tale variabile andasse a mutare. Si giunse così, per aggirare il problema, a stabilizzare il numero di eletti a 630 per la Camera e 315 per il Senato. Prevalse all’epoca la tensione verso un allargamento della rappresentanza popolare in Parlamento, quale soluzione di discontinuità rispetto al regime dittatoriale e allo scopo di dare fiato alla democrazia rappresentativa.
Vi era, però, sin da allora la consapevolezza di una “densità” parlamentare eccentrica rispetto alla popolazione, in comparazione con altri Paesi. La quantità di membri che compongono il nostro Parlamento è, con ampio margine, la maggiore rispetto ai corrispondenti organi legislativi negli altri Paesi europei. I principali riferimenti in tal senso, tenendo in considerazione la simile densità di popolazione, sono costituiti da: Germania (778), Francia (925) e Spagna (616). Inoltre, tali numeri si riducono notevolmente se si tiene in considerazione che solo una parte di essi è composta da membri eletti direttamente. In questi modelli si prevede infatti che la seconda camera sia eletta in via indiretta, al contrario del nostro sistema bicamerale, che prevede lo stesso tipo di rappresentanza.
I contrari alla riforma, dal canto loro sostengono che la prospettiva di una riduzione non si dovrebbe porre come necessaria solamente in riferimento al costo della politica, ma anche con attenzione all’efficienza dell’organo rapportata alla sua funzione. Il bicameralismo paritario, infatti, era stato adottato dai Costituenti nell’ottica di una maggiore ponderazione delle leggi. Se ciò poteva all’epoca considerarsi opportuno, con il tempo tale sistema ha ripetutamente dato cattiva prova di sé: la parità funzionale è senza alcun dubbio penalizzante dal punto di vista delle tempistiche legislative e conseguentemente del costo che lo Stato sostiene in termini di efficienza amministrativa. Inoltre, la fiducia che il Governo deve ottenere da entrambi i rami del Parlamento concorre a rendere gravosa e vacillante la posizione dell’esecutivo nei rapporti col Parlamento e nello svolgimento delle sue funzioni.
Tuttavia le difficoltà riscontrate nel trovare un accordo sul punto della differenziazione funzionale hanno costretto ad adottare l’unica linea trasversalmente condivisibile. Difatti, se per la riforma del bicameralismo ancora c’è grande divergenza tra le forze politiche, questo non si può dire per la riduzione del numero dei parlamentari. Proprio per questo alcune iniziative si sono orientate nel separare radicalmente i due temi, accantonando momentaneamente l’ipotesi di una rimodulazione funzionale per concentrarsi sulla riduzione numerica.
Al di la dell’ingegneria istituzionale, quanto mai utile se funzionale a risolvere problemi reali, vi sono altre due questioni da evidenziare con riguardo a tale riforma che non attengono tanto a tecnicismi, quanto al “senso” delle istituzioni repubblicane.
Anzitutto il tema del “ruolo” del Parlamento che non è necessariamente connesso al numero dei suoi componenti, quanto alla consapevolezza del ruolo da assolvere all’interno della Repubblica democratica. Gli avvenimenti degli ultimi mesi hanno confermato una sensazione che si trascina da tempo e che diviene vieppiù certezza: non è solo il Governo a non avere rispetto del ruolo del Parlamento, ma pare che siano le stesse Camere ad aver smarrito il significato del proprio ruolo. Ne siano riprova, tra gli altri fattori: un’opposizione che si svolge troppo spesso fuori dalle aule parlamentari, una mancata attivazione degli strumenti istituzionali di difesa delle proprie attribuzioni da parte degli organi apicali delle Camere stesse, la scarsità di proposte di legge di riforma organica che provengano dagli stessi ranghi parlamentari…..
In secondo luogo, e di conseguenza, si assiste ad un continuo svilimento della “qualità” del personale politico adibito a funzioni significative (v. le ultime nomine nelle Presidenze delle Commissioni). Come il merito sta scomparendo dal sistema scolastico e universitario pare allo stesso modo dileguarsi dal Parlamento, con gravi responsabilità del Parlamento stesso. Che da un lato rivendica, sempre più flebilmente la propria centralità nel sistema e, dall’altro lato, dà scarsa prova della consapevolezza dell’autorevolezza del proprio compito.
Anna Poggi – professore ordinario di diritto costituzionale – Università di Torino